La Genesi di Lot

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Data di pubblicazione: 12 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

CAPITOLO VII. La Seconda guerra delle Razze e la nascita degli Hobbit

E fu ancora odio sulla terra di Extremelot; le razze create da Simeht volevano il dominio su quelle create da Themis. Nuovamente Umani, Elfi, Nani e Gnomi dovettero unirsi per debellare quel morbo. I Goblin e gli Orchi attaccarono le montagne dei Nani e le foreste degli Gnomi.

Themis vedeva dai cieli vasti incendi distruggere le sue creature ed indebolire la Terra. Prese del fango, lo modellò con l’aiuto degli Angeli ed in esso soffiò lo spirito della tranquillità e della temperanza, HOBBIT li chiamò. Allegri e vivaci, coltivarono strenuamente distese di terreni per sostentare le legioni in guerra; e i Nani forgiavano armi e i primi maghi aiutavano i soldati.

La guerra durò trenta mesi e le forze da ambo i lati erano ormai decimate; Goblin ed Orchi attaccarono dunque le coltivazioni che sostentavano i figli di Themis, ma le nuove creature riuscirono a sconfiggere il male con la loro testardaggine.

Il giorno dell’ultima battaglia, il primo degli Angeli della Dea discese in nome della Madre per confortare le razze e prese la spada dal fodero di Arlesch il temerario, che era comandante Umano delle legioni razziali. Cominciò a combattere al loro fianco e venne chiamato Nemesh, il vendicatore. La Dea era con loro ed essi vinsero il male comune. La Notte della vittoria tutti festeggiavano secondo la loro natura, ma tutti invocavano il nome della Dea ed essa ne fu compiaciuta; mostrò ancora il suo viso alle sue creature e la festa fu grande e durò 7 giorni e 7 notti.

Quando i festeggiamenti terminarono, la Dea si trovò a passeggiare con Nemesh che le chiese d’esser trasformato in Umano. La Dea pianse lacrime di tristezza che caddero su ranuncoli selvatici, ma sapeva che Nemesh serviva alle razze, come lui aveva necessità di vivere con loro.

Impose le mani celesti sulla fronte di Nemesh, e mentre le tre Lune osservavano polvere argentea discese dall’Angelo ormai spoglio della sua immortalità e rinato nella carnalità, vide con occhi Umani il mondo e la creazione e si commosse. Dai ranuncoli intrisi della polvere angelica e delle lacrime celesti nacque per la prima volta una creatura particolare: possedeva ali come gli Angeli ma sembrava una farfalla, e la Dea la guardò benevola imponendole il nome di FATA. Essa viveva in solitudine e parlava con piante ed animali; era unica nel suo genere e la Dea decise di prendere lucciole dai cespugli e trasformarle in quello che la creatura era. Le Fate ebbero così un’aura rilucente attorno al loro corpo e si moltiplicarono, rivelandosi alle altre razze.

La Dea baciò sulla fronte Nemesh, e sulla sua fronte comparve il segno della falce di luna, così che tutti sapessero che egli era stato il favorito della grande Madre; e dunque tornò nei cieli dalle due gemelle.

CAPITOLO VIII. La Grande Ira

Themis visse a lungo nei cieli e vedeva le figlie risplendere di celestiale fulgore, ma nel suo cuore fece ben presto strada il presentimento che la natura del loro padre le avrebbe richiamate prima o poi. I lustri si susseguivano in pace e Simeht pareva essersi assopito al centro del mondo.

Una notte Veddharta e Ygharù si destarono al suono di una voce che cantava le meraviglie del mondo e del Creato. Le gemelle, colte da profondo desiderio di vedere, disubbidirono per la prima volta alla Madre e scesero sotto spoglie mortali nel Mondo. Conobbero le genti e le razze celate agli occhi di Themis.

La madre ansiosa piangeva la loro scomparsa, temendole preda di Simeht. E furono piogge e tempeste, ignorando che fossero sulla Terra. Mandò una legione di Angeli alla loro ricerca, ma le due sorelle erano guidate dalla voce che avevano udita nei cieli, così giunsero in una caverna oscura e vi trovarono un avvenente giovane che le fece innamorare di sé; e allora gelosia, invidia e odio invasero quegli animi puri, prima una e poi l’altra giacquero con il giovane, corrompendo il loro spirito e il loro corpo.

Simeht fece in modo che, con la magia, Shierak assumesse sembianze piacevoli e lo costrinse a sedurre le proprie sorelle per strapparle alla grande Madre. Così fu. Le gemelle diedero libero sfogo alla parte più oscura della loro natura, ed osarono alzare lo sguardo sui cieli ed inveire contro la Madre. Il potere dei Quattro fece assopire l’amore divino nel nucleo della legione angelica e li assoggettò al loro servizio, trasformandoli nel profondo grazie alla loro malvagia natura divina, e gli Angeli così deformati furono come schiavi e furono chiamati DEMONI. Ecco che la Madre vide e conosciuto questo scempio, pianse e venne travolta dalla rabbia: solo quattro lacrime sgorgarono dai divini occhi, e furono nere come la più terribile delle notti; quelle lacrime erano flagello e punizione per la terra, quelle lacrime divennero Quattro Cavalieri immortali e le popolazioni della terra li chiamarono con il nome della maledizione che recavano.

Uniti erano distruzione e terrore; separati essi furono Carestia, Pestilenza, Guerra e Morte. I Cavalieri si scontrarono contro i Demoni e li annientarono decimandone le schiere, ma essi cercavano altro, cercavano le Sorelle, il Fratello e il Padre. Nulla avrebbe fermato l’Apocalisse, nulla avrebbe taciuto l’ira della Dea fino a che i rei non fossero stati dinanzi al suo cospetto.

Le razze, ormai al limite della sopravvivenza, implorarono la Madre ma Ella non era più misericordiosa; rimase in silenzio, guardava le tre Lune e in esse vedeva i volti dei figli perduti. E pianse e si adirò, e la terra fu prossima al collasso; quando, il più codardo dei Demoni superstiti, spaventato da tutta quella distruzione e braccato dalla Morte rivelò il nascondiglio dei Quattro. E le nere lacrime della Dea trovarono i colpevoli nelle viscere della terra, nella dimora di Simeht. E i Cavalieri dell’Apocalisse condussero i colpevoli dinanzi alla Dea.

CAPITOLO IX. La Punizione: I VAMPIRI

Simeht venne condotto nuovamente nel centro della terra ed i sigilli con cui fu rinchiuso, furono la fusione di sei Angeli maggiori; altrettanti furono messi a guardia della porta della sua nuova prigionia, e nere le loro ali per distinguerli per il fardello che dovevano sostenere. Ed egli, consapevole della sua sconfitta, era furente di rabbia, e dalla sua rabbia generò Magma, che smuove le interiora del mondo, attentando alla creature viventi.

Themis guardò Shierak e vedendolo deforme ed incapace di provare sentimenti, ne ebbe compassione e lo lasciò andare; ed egli trovò rifugio su delle impervie montagne. Infine gli occhi della Madre si posarono sulle due dilette figlie, ma essi erano di ghiaccio ed Ella era risoluta.

Themis percosse Veddharta, e Carestia la infilzò con la sua spada; Veddharta cadde sulle ginocchia, e Morte le fece bere il suo sangue; ma lei non morì poiché era figlia di Themis e venne scacciata sulla terra; aveva assaggiato la Morte ma era sopravvissuta; la Dea la punì maledicendola con l’eterna sete e l’eterno pellegrinare.

Veddharta fu sola, e rifuggiva gli occhi delle razze perché la maledizione che gravava su di lei era portentosa. La sua solitudine la spinse però a ricercare la compagnia di chi si nutriva, ed ecco che uno dopo l’altro donò il bacio oscuro a cinque discepoli ed essi bevvero da lei, come lei aveva bevuto da loro; essi provarono la Morte ma senza morire e furono chiamati VAMPIRI. Non vivi, non morti, qualcosa di mai visto prima, rifiutati dal cielo ed eternamente erranti. I cinque iniziarono a vagare, il sole che era visione della Dea li indeboliva ed iniziarono a vivere di notte e a nutrirsi degli Umani, poiché a loro erano simili, ma essi vivevano a differenza dei figli di Veddharta.

E Veddharta, stanca per il peso di quell’anatema si assopì in un sonno profondo, mentre i cinque sparsero quel morbo nelle terre di Extremelot creando ognuno la propria discendenza secondo la loro originale natura. E i loro nomi erano quelli di ragni, poiché intrecciavano la loro tela in silenzio, signori del Tempo e degli animali immondi.

CAPITOLO X. La Punizione: LA LUPA

Ora la Dea volse lo sguardo su Ygharù e la figlia cadde a terra, implorando la Madre ed ammettendo la sua colpa con il pentimento; ma la Dea sapeva che nulla avrebbe impedito alla natura malvagia della figlia di impadronirsi nuovamente di lei. Mossa a compassione da quell’atto di dolore, decise d’essere meno severa e fece in modo che la figlia, portata sulla terra, divenisse una lupa. Ella manteneva parte della sua intelligenza e la sua natura divina le impediva di morire; si inoltrò in una foresta nera, in cui si diceva vivessero antichi spiriti potentissimi che erano tutt’uno con la natura e la creazione. Qui incontrò un branco di lupi e da essi imparò le regole del branco, conobbe la natura e l’amò con tutta l’anima.

Una notte di primavera comparve un bellissimo lupo nero nella foresta sacra. Egli era Mhaàr, incarnazione dello spirito dell’Esistenza, e le due anime soggiogate in quella forma, si amarono ancora ed ancora; la lupa portò con sé quel ricordo e il fardello della gravidanza.

La Madre la guardava dai cieli e vide che l’aveva salvata dal Male e sorrise, e le tre Lune con lei; in una notte in cui tutte risplendevano mostrando in interamente il loro volto la figlia partorì. Passarono 7 giorni e 7 notti e l’infante subì un mutamento: da lupo che era, assunse aspetto Umano e così fu per tutti gli anni avvenire; conobbe e rispettò il branco ma era solo, nessuno era fatto come lui, allora la lupa ululò disperata per il figlio verso le tre Lune che avevano sorriso alla sua nascita, e le Lune invocarono l’aiuto della Dea; ella che percepì la solitudine di quell’essere gli parlò.

«Ascoltami» disse in una notte senza stelle rivolgendosi al nipote. «Poiché mi sei caro, ti farò dono di una compagna e di creature congeniali alla tua natura.» Ed egli ascoltava stupito, e non aveva voce per rispondere mentre la Dea continuava: «Ti chiamerai Vertonn e sappi che la Madre dei cieli è al tuo fianco.»

Egli si diresse verso un lago, che la voce gli aveva indicato quella stessa notte, e li trovò una donna che era simile a lui in tutto; la foresta sacra si popolò di creature a loro congeniali, la cui natura li faceva mutare in fiera ad ogni luna piena ed essi furono chiamati MANNARI.
Ed ecco che la lupa bianca scomparve, e Vertonn figlio di Semidei visse per millenni e popolò con i suoi fratelli quelle terre di creature benedette dalla Dea.

CAPITOLO XI. L’Araldo

Nel centro della terra Simeht, furente di rabbia imprecava contro i cieli, e a causa di quella rabbia Magma, suo figlio prediletto, cercò di insinuarsi fino al fondo del globo per liberare il padre. Varcò il sigillo degli Angeli ma Simeht non riuscì ad uscire dalla prigione. Toccò per un istante il figlio che venne ricacciato da dove era venuto, ed egli distrusse parte delle viscere della terra, emerse in superficie e fuoco e fiamme si nutrirono di quel luogo.

Magma lascio scorrere le fiamme e si allontanò dal Padre; raggiunse i cancelli delle anime e, dopo averli varcati, ne divenne custode e Signore. Chi varcò i cancelli era Magma, ma da quel momento fu da tutti conosciuto come Ade. Tra le fiamme lasciate libere si riusciva a scorgere una figura alta ed imponente la cui voce scuoteva le montagne e i cui passi lasciavano desolazione attorno a sé, Nathamer. Egli era costituito dall’essenza di Simeht unita alla forza distruttrice di Magma, araldo e signore allo stesso tempo, e diventò portavoce di Shierak e di Simeht; il Male era dentro di lui e fluiva nel suo corpo, aveva forgiato nel fuoco la sua anima.

CAPITOLO XII. Il Richiamo di Nathamer

E Nathamer si elevò sull’abisso in cui era prigioniero Simeht; gonfio di odio e di rabbia lanciò il suo richiamo, squarciando le dimensioni ed il tempo, riversando nella terra di Extremelot l’orrore del Caos Strisciante. Ogni mezzo venne contrapposto nel tentativo di rigettare indietro il putrido abominio richiamato da Nathamer, ma solo l’intervento della Dea poté rigettare indietro ciò che era stato chiamato dall’Esterno.

Afferrò una galassia e la strappò dal cielo: nel vuoto lasciato da essa precipitò il Caos Strisciante e cancellò dalla mente di Nathamer la capacità del ricordo, affinché esso non potesse più ripetere il suo richiamo, poi lo colpì violentemente ed egli giacque in un sonno profondo. Racchiuse la malvagia conoscenza in un vaso e lo scagliò verso il vuoto, ma Apophis il malvagio volò veloce ed infranse con gli artigli il vaso prima che venisse risucchiato nel vuoto; il ricordo contenuto fuoriuscì violentemente, ricadendo su Extremelot e penetrando nella mente di molti uomini che prima di impazzire, scrissero col proprio sangue ciò che avevano udito confusamente nella loro mente.

I manoscritti furono riuniti in un unico libro nel tentativo di distruggerlo. Esso prese coscienza e fu in grado di soggiogare la volontà dei suoi possessori, nutrendosi della loro energia vitale e donandogli la possibilità di evocare alcune delle creature scacciate da Themis nel vuoto cosmico.

Vennero prodotte copie, ma più ci si allontanava dall’originale più esse diminuivano la loro efficacia. Poi il libro scomparve e solo le copie vergate da Umani, ormai folli, rimasero a testimoniarne l’esistenza. Ed essi chiamano quel libro Nekronomikon.

Data la lunghezza dell’articolo, il post è stato diviso in più pagine:

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