I Folletti Italiani

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Data di pubblicazione: 3 Aprile 2011 ©Giardino delle Fate

Folletti della Tradizione Italiana

~• IL BUFFARDELLO •~

Il buffardello è un folletto presente nella tradizione popolare della provincia di Lucca, e in particolar modo della Garfagnana. Varianti del nome sono bufardello, buffardella, bufardella, baffardello, bafardello, baffardella, baffardelle. A Gorfigliano, frazione di Minucciano, viene chiamato pappardello, a Sillano piffardello. Secondo il vocabolario lucchese di Idelfonso Nieri, il buffardello è un folletto, diavoletto curioso, pressappoco come il linchetto.

Sebbene in alcuni casi si ignori che cosa sia esattamente, e in altri lo si identifichi con il linchetto o con il diavolo, il buffardello è generalmente descritto come un essere antropomorfo di piccole dimensioni (attorno al mezzo metro, tanto che viene paragonato ad uno gnomo o ad un nano) e vestito di indumenti di colore rosso (a volte tutto il vestito, altre volte solo un berretto), ed avrebbe anche delle scarpe a punta.

In alcuni casi è descritto come un bambino o comunque senza barba, in altri come un vecchio con la barba. Le sue mani sono state bucate da San Giovanni, affinché non soffocasse più le persone durante la notte. A volte lo si vede seduto su un mucchio di fieno o su un albero.
In molti casi però, il buffardello viene descritto come un essere di piccole dimensioni, brutto e nero ma di fattezze animalesche non ben definite, genericamente un animale selvatico, una “bestiaccia” o una “bestia del bosco”, o addirittura un “batuffolo grigio”.

Spesso viene paragonato ad un animale noto: volpe, gatto, cane, tasso, foionco (cioè una faina), un grosso uccello notturno o comunque un “uccellaccio”; talvolta invece, è una creatura del tutto fantastica. A Minucciano è descritto come un uccello notturno con le corna, che vive nella torre del paese (tanto che di notte si può udire il suo respiro), mentre a Pianacci, nel comune di Villa Collemandina, viene descritto come un uccello con la testa di topo.

Si ritiene generalmente che il buffardello sia invisibile, tuttavia esistono testimonianze di chi lo ha visto di persona: secondo costoro, lo strano essere vivrebbe nelle stalle oppure sugli alberi (specialmente sui noci); a volte lo si vede entrare da una finestra, altre volte camminare saltellando e scalciando. Nei paesi si odono di frequente, presso le abitazioni, le sue risate tipicamente sarcastiche; a Gallicano si racconta che una volta aveva occupato una casa e passava il tempo ad aprire e chiudere le finestre, ridendo a più non posso.

Generalmente il buffardello agisce di notte, lanciando urla sgradevoli e compiendo scherzi e dispetti a danno di persone ed animali domestici, anche se non è ritenuto pericoloso. Un dispetto molto comune è quello di salire o battere o addirittura camminare sul petto o sullo stomaco delle persone mentre dormono, provocando in loro un senso di schiacciamento o di soffocamento (in dialetto si dice che il buffardello calcolisce o carcolisce), talvolta mettendo anche una mano (che però è bucata) sulla bocca del dormiente, altre volte immobilizzandogli le mani.

A questo disturbo si associa il dispetto di tirare via le coperte (specialmente alle zitelle), fare rumori strani in casa o in camera da letto, far tentennare (grollare in dialetto) il letto, nascondere o spostare gli oggetti posti sui mobili, spengere i lumi, strappare la carta da parati, tagliare a chiazze la barba degli uomini mentre dormono, disfare le matasse di canapa che venivano usate per fare le lenzuola; nei casi peggiori, getta nel caos l’intera abitazione. La notte lo si sente salire le scale che portano alla camera da letto, o camminare per la casa.

Nelle cantine ruba il vino dalle botti e di notte, fuori di casa, ruba o butta all’aria il bucato steso ad asciugare, oppure vi getta sopra il malocchio (specie se si tratta di vestiti di bambini). E, a proposito del malocchio, si sostiene che le corone di piume che si formano nei cuscini, siano da attribuire proprio al buffardello.

Scherzi frequenti vengono fatti anche ai danni degli animali domestici nelle stalle: succhia il latte delle mucche, trasforma il latte in olio, intrica le code delle vacche e dei cavalli e le rende immuni al fuoco, fa tentennare le gabbie degli uccelli da richiamo, fa scalpitare le vacche, spaventa le pecore e può succhiare il sangue agli animali domestici fino a farli morire. Talvolta è stato visto cavalcare una cavalla di notte per le vie del paese.

Con i ragazzi e i bambini sembra avere un rapporto ambivalente: talvolta li spaventa, li getta in terra o li rapisce o scioglie le fasce dei neonati, talaltra dimostra affetto verso i più piccoli, tanto che va a dormire nel lettino accanto a loro.

Stessa ambivalenza con le donne e le ragazze: in certi casi strappa loro i capelli o li aggroviglia in modo così inestricabile, che si è costretti a tagliarli, disfa le trecce o scioglie il grembiule che hanno indosso, intreccia la lana mentre tessono; in altri si innamora di loro e le cura portando da mangiare e da bere, pettinandole e facendole belle. In questo caso però, il rapporto deve rimanere segreto, altrimenti il buffardello si vendica facendo morire la ragazza. Non è raro che di una coppia di ragazze di cui una è brutta e l’altra bella, si dica che è opera del buffardello (come anche di una coppia di bambini, uno sano e robusto, l’altro debole e malaticcio).

Sembra che tra i suoi nemici ci siano i preti, rompe loro gli occhiali e nelle canoniche emette rumori animaleschi (grugniti, ragli, miagolii). Si pensa che causi un vento forte e vorticoso (detto scontronello a Magliano in Garfagnana), a tal punto che in alcune località, il nome buffardello è passato ad identificare proprio questo tipo di vento, oppure il vento che fa vibrare i vetri delle finestre.

Scongiuri e rimedi
Per impedirgli di entrare in casa, al tramonto (o meglio, a quella che in lucchese veniva chiamata ordinotte) si chiudono le finestre e si ritirano i panni stesi ad asciugare, per evitare che li “streghi”; poi si appoggia alla parte interna della porta una scopa rovesciata, in modo che il manico tocchi il pavimento, oppure ci si appende una stola da sacerdote. Sul lato esterno della porta invece, si appende un ramo di ginepro, in modo che il buffardello quando arriva è costretto a contare le bacche, dimenticandosi della persona che vuole molestare, e se ne va. Questo rimedio è usato anche per proteggere gli animali domestici, appendendo un ramo di ginepro nella stalla.

Se invece il buffardello è già in casa, ci sono diversi rimedi per farlo fuggire: si spenge la luce oppure si tiene accanto a sé una candela, fatta di tre qualità diverse di cera, oppure si mette un piatto contenente bacche di ginepro sulla scala che porta in camera da letto, e quando il buffardello ci inciampa, il padrone di casa gli ordina di raccoglierli tutti e lui fugge.

Se poi si vuole solo che non salga sul letto, si può appoggiare sulla sponda una scopetta di saggina, oppure si mette un capo di vestiario da uomo (pantaloni o cappello), disteso in fondo al letto (esiste anche la versione “cristianizzata”: una camicia da notte bianca con le maniche disposte in croce). Il capo di vestiario da uomo si fa indossare anche ai bambini, come protezione dal buffardello quando sono fuori casa.
Nel caso non si siano adottati questi rimedi e si senta la presenza del buffardello sul petto mentre si dorme, ci sono un paio di frasi che si possono utilizzare: Scappa! Non lo sai che t’ha fatto San Giovanni, eh? E tanto non m’affoghi! (con riferimento alle mani bucate), al che il buffardello vistosi scoperto, fugge.

Infine, altri rimedi sono quello di mettersi un fazzoletto in testa, per evitare che il buffardello aggrovigli i capelli, e piantare in terra un pennato o un altro oggetto di ferro, per fermare il vento vorticoso da lui provocato.

~• IL LENGHELO •~

Il lenghelo, detto anche lenghero, lenghelu o familiarmente lengheletto, è un folletto o spiritello presente nella tradizione popolare dei Castelli Romani. In molte regioni del Sud Italia, questa figura magica viene conosciuta sotto il nome di farfaro, mentre è conosciuto con altri nomi nelle varie regioni d’Italia. Secondo una tradizione popolare il rifugio del lenghelo sarebbe all’interno di Palazzo Sforza-Cesarini di Genzano di Roma, ma la credenza più diffusa, almeno nel passato, è che ogni famiglia ne avesse uno. Secondo la leggenda ha un aspetto alto e longilineo, da cui il nome lenghelo, cioè “lungo” o “allungato”.

Spiritello dispettoso ma non malvagio, secondo la tradizione popolare si può osservare in varie situazioni: cammina sulle scale di legno, oppure si nasconde nei sottoscala, disturba con scherzi coloro che non rispettano i propri familiari, o semplicemente le persone a lui antipatiche, saltando letteralmente sulla loro pancia durante il sonno. Inoltre, nasconde o rompe piccoli oggetti nella casa, ma può anche far trovare soldi o dare numeri vincenti al lotto (nella tombola marinese il numero 63 viene abbinato al lenghelu).
Il lenghelo compare nella tipica espressione in dialetto marinese Te ballo sopp’a panza comm’u lenghelu! cioè “Ti ballo sopra la pancia come il lenghelo”.

~• IL LINCHETTO •~

Il linchetto è un folletto presente nella tradizione popolare della provincia di Lucca, in particolar modo nella piana di Lucca, ma anche in Garfagnana. Secondo il vocabolario lucchese di Idelfonso Nieri, il linchetto è uno spirito non cattivo ma dispettoso, che va di notte, entra per le camere, scopre le persone, sconvolge, tramuta gli oggetti che ci sono e sghignazza delle burle che fa.

Il nome deriverebbe dal latino incubus con agglutinazione dell’articolo, attraverso le forme lincubetto, lincuetto. Secondo l’italianista Felice Del Beccaro, infatti, il linchetto sarebbe un relitto del dio silvestre Fauno, che nel suo aspetto di Incubus, spaventava la gente e tormentava gli uomini con sogni cattivi ed apparizioni. Racconti sul linchetto sono stati registrati nel 1984-1987, da Oscar Guidi, nei comuni di Careggine, Castelnuovo di Garfagnana, Fabbriche di Vallico, Gallicano, Molazzana, San Romano in Garfagnana, Vagli Sotto, Vergemoli.

In alcuni casi il linchetto viene identificato con il buffardello, tuttavia nella maggior parte dei racconti e delle testimonianze, sembra emergere un carattere più maligno e pericoloso del linchetto rispetto all’altro, tanto che il linchetto viene anche assimilato al diavolo, o comunque ad uno spirito malvagio.

Diversamente dal buffardello, nella quasi totalità dei casi il linchetto viene descritto come un essere che non ha niente di umano: si pensa che sia un animale simile al cane o al gatto oppure un uccello, o che sia un ibrido di specie diverse (topo, uccello e uomo). Sebbene molti dicano che è invisibile, un testimone oculare affermò trattarsi di una bestia nera avvolta da una nuvola di fuoco. Il linchetto vivrebbe in campagna o nelle periferie dei paesi, ed una volta fu visto vicino a un metato (essiccatoio per le castagne).

Come il buffardello, anche il linchetto dà fastidio alle persone mentre dormono, buttando all’aria i lenzuoli e salendo o battendo sul petto, in modo da rendere difficoltosa la respirazione. Un simile disturbo lo arreca anche alle mucche, stancandole e facendole scalpitare, e si diverte ad intrecciare in modo inestricabile le code di cavalli e mucche; nel caso dei cavalli, la coda e la criniera così attorcigliata non devono essere sciolte, altrimenti l’animale perde le sue buone qualità. Nel caso delle mucche, capita che il buffardello ne prenda una in simpatia e le dia il cibo togliendolo alle altre, così come prenda una mucca in antipatia e le tolga il cibo, le butti all’aria la lettiera di strame e la faccia ammalare fino a farla morire.

Di notte scopre le persone che dormono, provocando anche liti, specialmente durante la notte di nozze, quando si accanisce sullo sposo pizzicandolo e sculacciandolo con accompagnamento di sghignazzi beffardi. Altri dispetti sono quelli di bussare alla porta di notte, nascondere o rubare oggetti, schiaffeggiare le ragazze, disfare le trecce dei capelli, rapire bambini, nascondersi nei tini durante la vendemmia.

Secondo l’etnografo Giovanni Giannini (che scrive alla fine del XIX secolo), il linchetto è affettuoso con i bambini, accarezzandoli e cullandoli, mentre non sopporta le vecchie, alle quali combina ogni genere di dispetti. Ciò gli aveva fatto guadagnare il soprannome di Caccavecchia o Carcavecchia.

Scongiuri e rimedi
Il linchetto si può spaventare con una candela benedetta; per tenerlo lontano da case e stalle, si può appendere dietro la porta un ramo di ginepro, del quale sarà costretto a contare tutte le foglioline senza poter fare i dispetti voluti. Se il linchetto entra in camera, si può mettere una tazza piena di riso sul comodino, in modo che il linchetto la rovesci e sia costretto a contare i chicchi, finché non si stanca e se ne va.
Un rimedio per evitare disturbi durante la notte di nozze, potrebbe essere quello di far portare al linchetto delle lettere in luoghi lontanissimi, ma è un tentativo abbastanza sterile perché compie la missione in pochissimo tempo, dopodiché torna a compiere i soliti dispetti.

~• LO SCAZZAMURRIEDDHRU •~

Lo Scazzamurrieddhru è un dispettoso folletto del folklore meridionale. Il nome “Scazzamurrieddhru” viene utilizzato in particolare nell’area ionico-salentina. Nel foggiano è noto come Scazzamurrill, mentre a Napoli come Munaciello. È descritto come un omino brutto e peloso, con un abito color tabacco, scalzo ed un cappellino in testa, ed ha l’abitudine di sedersi sulla pancia o sul petto di chi dorme, guastandogli il sonno (si riferiscono a questo fatto, nomi come Carcaluru, da “calcare”, “fare pressione”). Non appare mai di giorno.

Per ingraziarselo gli si possono donare un paio di scarpe, o si possono lasciare dei sassolini nelle proprie pantofole la notte; lo Scazzamurrieddhru ripaga queste gentilezze con monete d’oro, o indicando al suo benefattore il luogo dov’è nascosto un tesoro. Lo si può invece ricattare, rubandogli il cappello.

Oltre a tormentare i dormienti fa altri dispetti, come rompere i vetri delle finestre, far chiasso con le pentole in cucina. Con gli animali domestici ha un rapporto particolare; talvolta li cura e li nutre, talaltra li tormenta (per esempio annodando le criniere e le code dei cavalli). Capita anche che mostri di odiare un certo animale ed amarne un altro e, per esempio, sottragga il cibo dal primo per darlo al secondo.

È benevolo con le fanciulle, e le protegge dalle angherie delle matrigne e delle padrone, giungendo a fare i lavori di casa al posto loro. Ama anche i bambini, e regala loro dolcetti e monete.
Alcuni racconti lo rappresentano come particolarmente burlone; quando gli si domanda “Vuoi cocci o soldi?”, se si risponde “Cocci” porta soldi, e viceversa.

~• LO GNEFRO •~

Lo gnefro è, nella cultura popolare del centro Italia, in particolare della zona della città di Terni e della Valnerina, una creatura leggendaria che è solita vivere in gruppi più o meno numerosi, nei pressi della Cascata delle Marmore e lungo il fiume Nera, tra la cascata stessa e la fine della Valnerina.

Secondo la tradizione popolare, questa creatura è di fatto equiparabile ad una sorta di folletto o gnomo di bassa statura (inferiore a un metro). In base ad alcune teorie, appare ai viandanti esclusivamente di notte, a volte con l’aspetto di un bambino grazioso, ed altre con le fattezze di una specie di piccolo gnomo, con pelle ruvida e crespata.

Le leggende narrano che gli gnefri si divertano ad importunare i viandanti solitari con scherzi o piccoli dispetti, tuttavia finalizzati perlopiù a spaventarli, senza pertanto arrecare mai reali danni gravi. Secondo tali tradizioni, gli gnefri sono anche dotati di piccoli e deboli poteri magici. Alcuni li considerano veri e propri folletti protettori delle case.

~• LO SQUASC •~

Lo squasc (pronuncia /’skwaʃ/) è un essere mitologico del folklore della Lombardia orientale. Si dice sia un essere piccolo, peloso, fulvo, simile ad uno scoiattolo senza coda, ma con volto antropomorfo. La sua funzione si trova a metà tra quella di uno spirito cattivo (assimilabile al boogeyman o uomo nero) ed un folletto. Infatti, come il primo è chiamato in causa per spaventare i bambini, mentre come il secondo, ama fare scherzi anche pesanti ad ogni categoria di persone, con una certa predilezione per le fanciulle.

~• IL TUMMÀ •~

Il Tummà è un’antica favola del basso ceto barese, per descrivere la folta vegetazione di ulivi nel tavoliere delle Puglie. Nata nel periodo medioevale sotto la dominazione araba, la leggenda narra l’avventura di un folletto dal naso gigante (simbolo di fertilità), chiamato appunto “Tummà u sgummà” della tribù degli sgummà, che allontanatosi dalla sua casa nel paese dei Ladisi (si suppone che la zona sia l’antica stazione di Bari) alla ricerca del tesoro perduto dei “Giacomini” (gli arabi), si perse nell’arida piana pugliese.

Preso dalla disperazione il folletto Tummà iniziò a piangere, e grazie al fazzoletto che portava sempre con sé donato dalla fata Dusica (dal dialetto pugliese, meretrice), inondò con il suo pianto la valle. Dalle sue lacrime, nacquero gli ulivi famosi ormai in tutto il mondo.
Recenti ricerche hanno dimostrato che ormai la favola è in disuso, ma alcuni anziani della popolazione barese sono soliti raccontare ai propri nipoti, che nel barese si nasconde ancora “Tummà”, e che se si riesce a prenderlo dal naso e a rubargli il fazzoletto, si potrà diventare ricchissimi.

~• IL MONACHICCHIO •~

Il Monachicchio è il nome, in forma italianizzata, di un personaggio del folklore lucano. Sebbene l’origine e l’aspetto del suo mito abbiano molto in comune con quelli dello Scazzamurrieddhru salentino e del Munaciello napoletano, il Monachicchio non solo ha una sua precisa identità, ma le sue descrizioni variano da zona a zona della Basilicata.

« I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alla donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il acre, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso più grande di loro: e guai se lo perdono. Tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato. Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercarli di afferrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lacrime, scongiurando di restituirglielo. Ora i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sottoterra, sanno i luoghi nascosti dei tesori. Per riavere il suo cappuccio rosso, senza cui non può vivere, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi accontentano fino a che non ti abbia accontentato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà. Ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e salti di gioia, e non manterrà la sua promessa. »

L’origine del mito va cercata nelle trazioni religiose romane, che attribuivano ai Lari e ai Penati la protezione dei defunti e della casa. Con l’avvento del Cristianesimo queste figure pagane vennero pian piano assimilate, nell’immaginario popolare, con quella dello Spirito Incubo, di cui alcune manifestazioni del Monachicchio lucano, ereditano gran parte dei loro attributi.
La descrizione del Monachicchio e delle sue capacità sovrannaturali, varia da zona a zona della Basilicata.

Il Monachicchio di Grassano
Secondo la tradizione di Grassano, in provincia di Matera, il Monachicchio è lo spirito di un bambino morto prima di ricevere il battesimo. Di bell’aspetto e di carattere gentile, porta in testa un berrettino di color rosso, detto u cuppulicchi (“il cappellino”).
Solitamente appare ai bambini, sia di giorno che di notte, e con questi trascorre molto tempo a scherzare e a giocare a rincorrersi, infatti questa è la cosa che più gli piace, poiché sa che se i compagni di gioco gli tolgano u cuppulicchii, essi ne raccoglierebbero le monetine d’oro che questo contiene.

Con gli adulti si diverte a togliere le coperte dal letto, fare il solletico ai piedi delle persone, posarsi su di esse mentre dormono (come un Incubo), e legare i peli della coda di asini e muli o la criniera dei cavalli, per poi farsi trovare all’alba, quando i contadini si levano dal letto, sotto la pancia degli animali, e ridere a crepapelle se costoro non riescono a slegarli. Con le donne, si diverte a sussurrare parole dolci negli orecchi delle belle ragazze e leccare le guancie di quelle paffute. Poi, quando è soddisfatto dei suoi scherzi, battendo le mani sparisce nel suo fantastico mondo, dove abita in una grotta ricca di tesori.

Il Monachicchio materano
Secondo la tradizione del materano, il Monachicchio è una sorta di folletto che fa dispetti, che mai causa problemi o danni seri. Questo si diverte a fare il solletico ai piedi delle persone, posarsi su di esse mentre dormono, tirare i capelli e dare forti pizzicotti.
L’unico sistema per porre fine ai loro scherzi, è toglierli il cappello. Se si riesce a farlo, il Monachicchio si butterà per terra in lacrime, scongiurando di restituirglielo.

Pur di riaverlo indietro, infatti, sono disposti a rivelare la locazione di un tesoro, posto nel sottosuolo (di cui sono custodi). Se però si acconsente alla loro richiesta di riavere il cappello prima della consegna del tesoro, questo sparirà senza mantenere la sua promessa.

Il Monachicchio di Maratea
Secondo la tradizione di Maratea, in provincia di Potenza, il Monachicchio (in dialetto marateota ù Mommachìcchiu) è uno spirito cattivissimo, che spesso finisce per essere equiparato al Diavolo. Questo, dalle sembianze di un bambino di poco più di sei anni, appare sempre sporco di terra e con uno strano berretto color rosso.

Secondo alcune leggende, esso vivrebbe nei boschi di Marina. Anche se a volte si limita a fare piccoli scherzi senza gravi conseguenze (come svuotare la cantina delle case o torturare i dormienti con rumori per tutta la notte), questo spiritello promette grandi tesori alle sue vittime, che sceglie secondo requisiti sconosciuti, e compirà imprese od azioni che in realtà, faranno loro perdere l’anima o ne causeranno la morte.

~• IL MAZARÒL •~

Il Mazaròl è un personaggio fantastico, tipico del folklore del Primiero e di alcune zone del Bellunese. Di aspetto robusto ed atteggiamento selvaggio, spesso simile ad un anziano, sarebbe vestito di rosso, con giacca turchina, un grande cappellaccio ed un mantellone nero, sotto al quale nascondeva i bambini disobbedienti, portandoli con sé nel folto bosco ove abitava.

Ha un carattere generalmente benevolo, ma è suscettibile e vendicativo nei confronti di chi tradisce la sua fiducia, dimostra poco rispetto per la foresta o semplicemente calpesta le sue impronte. In particolare, chi metteva il piede su un’orma da lui lasciata, era costretto per forza d’incantesimo a seguirne le impronte, fino a giungere alla sua caverna; ivi beveva il latte di una capretta nera, e dimenticava subito tutto di se stesso.

Secondo una leggenda, il Mazaròl talvolta rapisce le persone per trasformarle in suoi schiavi. Un episodio narrato frequentemente riguarda una ragazza del Primiero, che si sarebbe ritrovata al cospetto del Mazaròl subito dopo averne calpestato le impronte. La creatura le alitò in viso e lei dimenticò tutta la sua vita passata, trascorrendo gli anni successivi al suo servizio. Il Mazaròl le insegnò a fare il burro, il formaggio e la ricotta, e le aveva promesso che le avrebbe insegnato a ricavare la cera dal siero, tuttavia non ne ebbe il tempo. Infatti, un giorno, un cacciatore riconobbe la ragazza e la riportò in paese.

Si fecero numerosi tentativi per far tornare la memoria alla sventurata; alla fine, ciò che funzionò da antidoto, fu il latte di una capretta bianca, offertole da una vecchina. Per la felicità di essere tornata a casa, la ragazza insegnò a tutto il paese a fare il burro, il formaggio e la ricotta; ma in Primiero, ancora non si sa ricavare la cera del siero.

~• IL MAZAPÉGUL •~

Il Mazapégul è il folletto della mitologia romagnola, che sembra un gatto, uno scimmiotto e un coniglietto. Sussistono tutt’ora in Romagna tracce di mitologia, un insieme, cioè, di superstizioni e credenze che traggono origine dal paganesimo, o dalle religioni delle popolazioni celtiche che prima dei Romani, tennero queste terre.

Di tanto in tanto affiora qualcuna di tali lontane credenze, poiché, com’è noto, la cultura popolare è assai lenta ad abbandonare le sue tradizioni, i suoi riti. Un elemento ancora superstite di tale mitologia, è senz’altro Mazapégul.

Umberto Foschi, nel 1975 ne “Il Romagnolo”, trattava del popolare folletto domestico e ancor prima di lui, Luciano De Nardis, nel 1927 sulle pagine de “La Piè”, annotava che nella nostra tradizione popolare, raramente si menzionano gli Spiriti Folletti, i quali sono invece operosissime nelle folande. Dalle folande sono passati alla vita quotidiana delle nostre genti solo quando è stato loro consentito, quando appunto, raramente, la vita e la favola si sono potute insieme confondere.

Quella dei Mazapégul è una piccola famigliola di folletti della notte, composta da diverse tribù, quali i Mazapédar, i Mazapégul, i Mazapigur, i Calcarel, diffuse un po’ in tutta la Romagna. Il nome della famiglia è documentato per la prima volta in un estratto di un contratto di vendita del 9 maggio 1487, nell’Archivio Generale di Forlì, «In questo anno in casa de madonna Benvegnuta, sorella de Guaspero Martinello, li era uno spirito ovvero folletto innamorato de la gentile sua massara, gioveneta venere, el quale di continuo faceva svoltare uno bacile intorno a sonari».

Nel vocabolario romagnolo/italiano del Mattioli, troviamo la seguente definizione: “spirito che superstiziosamente si credeva trasformarsi in uomo per giacere colle donne … starebbe tra il gatto e lo scimmiotto. Piccino, di pel grigio … porta in capo un berrettino rosso. Del resto non ha vestimento di sorta … La passione amorosa è la sua esclusiva manifestazione … È Mazapégul, impersona la sensualità, la passione erotica. E ne è rimotissimo simbolo … Viene dalle ere dei connubi bestiali.” (“La Piè” 1927)

Un preciso e completo identikit della personalità del Mazapégul romagnolo, ce lo fornisce Cino Pedrelli, sul numero 3 de “La Piè” del 1976: “Il Mazapégul è responsabile del senso di soffocamento e paralisi che opprime talvolta i dormienti; si corica con le donne, e le fa sue; svolge tutto un suo rituale amoroso ed affettuoso con gli animali della stalla ed in ispecie con gli equini, che si trovano al mattino coperti di sudore e adorni di trecce alle code e alle criniere, si sostituisce alle donne di casa nelle faccende domestiche, quando queste riscuotono la sua simpatia; o al contrario guasta lavori già avviati, nasconde oggetti, fa dispetti di ogni genere, quando le donne di casa riescano antipatiche; scatena all’improvviso turbini di vento, capaci di far volare via quanto capiti a tiro, comprese le persone”.

Paolo Toschi ricordava di aver partecipato, da fanciullo, al carnevale di Faenza e di aver intonato il ritornello: “Nô sen qui dla bretta rossa” (noi siamo quella della berretta rossa). L’autore ha collegato ciò col folletto romagnolo, il mazapégul o mazapédar, la cui principale caratteristica è costituita dal berretto rosso e ne ha desunto che, nei vecchi carnevali di Romagna, fossero esistite maschere raffiguranti i folletti.

Il mazapédar è dunque un personaggio fantastico che, nel folklore romagnolo, sta tra il folletto e l’incubus. Si tratta di un esserino molto piccolo, ibrido tra il gatto e lo scimmiotto, di pelame grigio, con un berrettino rosso sul capo. Trattandosi di uno dei tanti Incubi, è un vero maestro nel provocare peso al ventre ed orribili sogni. Le donne possono liberarsi dell’incomodo facendosi vedere la sera mentre mangiano un pezzo di pane, fingendo nel contempo di “spidocchiarsi”.

Il Mazapégul si offende talmente, che non si fa più vedere, ma non tanto per l’oltraggio subìto, quanto perché ritiene la sua protetta una persona assai poco pulita. Entra di notte nelle stanze leggero come il vento, gira da un mobile a quell’altro, finisce nel letto e lì si pone a giacere sopra il ventre delizioso di una bella ragazza della quale ha la passione, perché si innamora degli occhi e dei capelli e sospira: “Ad bëll òcc! Ad bëll cavéll!” (Che occhi belli! Che capelli belli!)
Se la donna gli è affettuosamente sottomessa, esso le fa la calza e stacca il fiore, le rassetta le stanze ma se la donna l’ha deriso, o peggio ancora ha preferito a lui il moroso o il marito, la scuote con malagrazia, la batte, la morde, la graffia, le strizza le carni, la spettina oppure le aggroviglia i lavori, le nasconde gli oggetti più disparati, le tagliuzza le vesti.

Esso, entrando nella casa, lascia sul pozzo di corte il berretto: allora basta che qualcuno si affretti al pozzo, e ghermito il berrettuccio di lana rosso, lo getti nell’acqua profonda onde esser salvi dalle sue insistenze. Accosciato sul pozzo, il folletto lamenterà implorante per lunghe notti la virtù sfatata: “Dam indrì e’ mi britin! Dam indrì e’ mi britìn!” (Dammi indietro il mio berrettino), perché privo del berretto, lo spiritello perde i suoi singolari talenti.

Vi si racconta d’una ragazza amata, che gli aveva tolto il berrettuccio e non glielo voleva più rendere, lo spiritello la minacciò di un dispetto grosso, ed una sera che la ragazza andò al ballo, si ritrovò d’improvviso nuda nata.

Fra i vari sistemi che la tradizione prevedeva per difendersene e per allontanarlo, c’era la celebrazione di un particolare rito: chi era perseguitato dal mazapédar, doveva procurarsi sette braccia (il sette, come il tre, è un numero «magico») di corda da piadura, cioè di quella usata per l’«appaiatura» dei bovini aggiogati; in cima alla corda andava fatto un ciapet, cioè un cappio. Doveva essere tenuta all’aperto per tre giorni e tre notti, poi legata ai piedi del letto. Chi voleva liberarsi del mazapédar, doveva poi salire scalzo sulla corda recitando la seguente formula rituale:

«Corda di canva fata da nov lìgul, cun una ciapra e cun i chév a spìgul; corda par imbalze’ e’ caval de’ re cun e’ pél négar e balzan da tre; par inlazè e’ cavron dl’anma daneda ch’l’à la rogna cun la schena pleda; pr impiadurè la bes-cia buvarena, pr ande int la val a fe tri cuv ad zlena; corda d’canva pr al campan da mòrt, corda pr e’ col dla speia screca fort; corda di canva pr impicher e’ ledar, bona par impicher e’ mazapédar.» (Corda di canapa fatta da nove mannelli, / con un nodo (un’accappiatura) e con le estremità a spigolo; / corda per impastoiare il cavallo del re / col pelo nero e balzano da tre; / per incappiare il caprone dall’anima dannata / che ha la rogna e la schiena pelata; / per incapestrare la bestia bovina, / per andare nella valle a fare tre covoni di carice (pavira); / corda di canapa per le campane a morto, / corda al collo della spia stretta forte; / corda di canapa per impiccare il ladro, / buona per impiccare il mazapédar.)

Per difendersi dal Mazapégul si possono porre, accanto ai letti, mazze, bastoni corde laccioli dei busti delle donne, o mettere sotto il letto forcali. Oppure stendere un sacco sulle coltri del letto, il Mazapégul, infatti, resta lontano per timore di esservi rinchiuso.

Il Mazapégul ha anche una grande avversione per l’acqua, tuttavia esiste anche un metodo meno drastico, che consiste nel tenersi cavalcioni d’una finestra, mangiando cacio e pane. Un altro metodo ancora, è quello di spargere una manciata di chicchi di riso sul davanzale, il Mazapégul si mette a contarli uno per uno, fino a quando non sorge il sole e scappa.

Data la lunghezza dell’argomento, l’articolo è stato diviso in più pagine:

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