La Fata dei Sogni

Articolo trasferito dalla precedente versione del sito https://giardinodellefate.wordpress.com

Data di pubblicazione: 12 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

“Chiudi gli occhi, Hadiya, e sogna…”

Sul pavimento era disegnata una rudimentale rosa dei venti racchiusa all’interno di un pentacolo, e loro si trovavano in corrispondenza dei quattro punti cardinali, ma fuori dal pentacolo… Un umano, un Elfo, un nano ed un vampiro.

Hadiya girò su se stessa per guardarli meglio, e lesse nei loro occhi una malcelata sorpresa mista a paura. Allungò una mano, e nell’aria attorno a lei scariche azzurrine si riversarono come acqua da una cascata sui suoi lunghi capelli e sulla pelle nuda. L’avevano rinchiusa al centro di una sfera spirituale, una gabbia di energia pura. Cosa volevano da lei?

L’umano parlò per primo: «A me non sembra una Dea…»

«Cosa vorresti insinuare, Gerik? L’evocazione ha avuto successo!» Il nano, rosso in volto, si protese verso l’umano con i pugni serrati, fin quasi a perdere l’equilibrio.

L’Elfo intervenne: «Piantatela voi due, e tu, Aelius, mantieni la calma; se ti sposti lei riuscirà a fuggire. Dobbiamo tenere chiuso il Cerchio.»

Il vampiro, l’unico rimasto in silenzio fino ad allora, sussurrò dolcemente: «Avrebbe tutto il diritto di provare a fuggire, signori miei. L’abbiamo trasportata qui contro la sua volontà, ed anche ammettendo che riesca a fuggire, dove potrebbe andare? L’abbiamo intrappolata in un sogno proprio per evitare la sua fuga.»

Il vampiro incrociò lo sguardo di Hadiya. «Hai capito, Dea delle nubi? Non puoi fuggire da questa gabbia.» Poi sorrise. «Io sono Kismet, Primogenito dei vampiri della valle di Yervant, la terra dei Cento Laghi, e questi signori sono Aelius, Gran Stregone nanico, Gerik, Figlio di Re Kester, attuale Signore della parte nord di Yervant, e Seif, ambasciatore del popolo degli Elfi.» Mentre parlava indicava ad Hadiya i suoi compagni. Una ben strana compagnia… «Ti starai certamente chiedendo perché ti abbiamo chiamata qui…»

«Ora basta, Kismet! Non aggiungere altro. Lei non deve sapere, o potrebbe vanificare ogni nostro sforzo.» La voce autoritaria di Seif interruppe bruscamente la frase di Kismet, ed il vampiro rivolse un’occhiata carica d’odio all’Elfo.

Aelius s’intromise: «Io proporrei di iniziare il rituale e mettere fine a questa discussione. Ormai non manca molto tempo al sorgere della luna.»

Gli altri tre annuirono all’unisono. Solo allora Hadiya si rese conto che oltre il Pentacolo, c’erano delle mura e proprio di fronte a lei, si apriva il vano scuro di una finestra ad arco acuto. Nubi nere solcavano il cielo lontano, e lei le sentiva, più che vederle; ne percepiva la forza, l’immenso potere racchiuso nelle gocce d’acqua sospese nel cielo notturno, la tensione elettrica che poteva scatenarsi da un momento all’altro sotto forma di fulmini e saette, ad un suo solo comando…

Eppure non credeva di poter riuscire a comandare alle nubi da quella gabbia d’energia. Lo Stregone aveva parlato di luna piena, ma oltre le nubi s’intravedeva solo una lieve fosforescenza verdastra e nulla più.

Mentre rifletteva sulla situazione, i suoi carcerieri ripresero a parlare. «La luna è già sorta, Aelius, ma le nubi la nascondono. Forse è lei che…»

«Zitto, Elfo! Non può comandare alle nubi da dentro la gabbia. Tra non molto la luna dovrebbe apparire e allora potremo procedere.»

«Sto iniziando a credere che questa non sia una Dea. È un vero peccato doverla sacrificare per salvarci e comunque non funzionerà. Continuerà a piovere in eterno e i raccolti saranno rovinati, le case travolte dalle alluvioni.» L’umano si passò la lingua sulle labbra, la sua voce si era fatta roca. «Non ho mai visto una donna così bella. Non vedo perché dovremmo ucciderla…»

«Fai silenzio!» Il viso di Aelius era vermiglio per la rabbia. «Umano blasfemo! Non osare mai più rivolgerti in questi termini ad una Dea! Anche se dovrà essere uccisa…»

A metà del battibecco tra i suoi rapitori, Hadiya si era accorta che il vampiro la stava fissando. Le sembrò che gli occhi di Kismet avessero un potere ipnotico. Più li guardava, più le sembrava che il suo corpo galleggiasse nell’aria, finché nella sua mente arrivò una frase: “Non avere paura, Hadiya, tra poco sarai libera”. La Dea inclinò la testa di lato e rimase stranamente tranquilla, con gli occhi persi in quelli del vampiro.

Il tempo trascorreva lento. L’umano si stava spazientendo e il nano lo teneva sott’occhio. L’Elfo aveva un’aria assente, con lo sguardo fisso nel nulla, mentre il vampiro continuava a guardare Hadiya. Poi la luna apparve. Appena i raggi lattescenti penetrarono attraverso la finestra ed andarono a bagnare la pelle chiara della Dea, Aelius alzò le braccia al cielo ed iniziò a cantilenare un incantesimo. Poco dopo fu seguito da Seif e da Gerik.

Quando fu il turno di Kismet, qualcosa cambiò nell’aria. Lunghi tentacoli d’ombra partirono dalle dita del vampiro e andarono a stringersi attorno alle gole degli altri tre.

Aelius fece in tempo a sussurrare: «Tradimento…», prima di essere soffocato. In poco tempo tutto finì. Kismet abbandonò il suo posto e la sfera d’energia che avvolgeva Hadiya, scomparve in una pioggia di scintille azzurre. Il vampiro si avvicinò alla Dea e le porse la mano.

Hadiya esitò, poi avanzò di un passo verso di lui. «Perché lo hai fatto? Perché volevano la mia vita?» Le parole di Hadiya risuonarono cristalline nella stanza semibuia.

Kismet sorrise e le fece un inchino. «Da tempo Yervant rischia di cadere nelle mani del caos. Piogge torrenziali ed alluvioni devastano e distruggono i raccolti, villaggi interi, città. La furia degli elementi si è scatenata contro di noi, e questi stolti erano convinti che il sacrificio della Dea delle nubi avrebbe riportato il tempo alla normalità. I quattro popoli hanno mandato ognuno un ambasciatore ad assistere al sacrificio. Poveri illusi! Sono ben altri gli Dèi che hanno condannato al buio Yervant. Ho stretto un patto oscuro con quegli Dèi, e come pegno avevo promesso loro la vita di un Elfo, di un umano e di un nano. Ho onorato il patto. Ora tocca a loro dimostrarsi degni di fiducia. Vieni.» Kismet condusse Hadiya presso la finestra e la invitò ad affacciarsi.

Lei lo fece, e vide le nubi diradarsi e lasciare filtrare in abbondanza la luce della luna. «È finita?»

«No» rispose Kismet. «Questo è solo l’inizio.» Si chinò e sfiorò con le labbra la mano di Hadiya. «Mi dispiace di aver contribuito ad arrecarti disturbo; per farmi perdonare, accetta questo dono.» Si tolse una lunga catena d’argento dal collo, e la pose attorno al collo della Dea. Dalla catena pendeva un cristallo trasparente. «Quando ti troverai in pericolo di vita, alza davanti a te questo ciondolo. È intriso di magia, può ipnotizzare qualsiasi tipo di creatura. Nessuno ti farà più del male, mia Signora. Ora il tempo sta per scadere, devi tornare nel tuo mondo.»

Hadiya guardò il vampiro senza capire. «Perché stai facendo tutto questo per me? Hai risparmiato la mia vita mentre, tra tutti i partecipanti al rito, avresti dovuto essere il più malvagio.»

Kismet sorrise, un sorriso enigmatico, ma non rispose alla domanda, disse invece: «Forse ci rivedremo ancora, mia Signora.» Hadiya fu sollevata in aria da un vortice d’argento e l’ultima cosa che vide furono gli occhi verdi del vampiro. Verdi e profondi…

Hadiya si svegliò di soprassalto. Si era addormentata nei pressi di un laghetto avvolto dalla nebbia, ed ora la sua pelle luccicava di perle di rugiada. Rabbrividì per l’intensa umidità e mentre si sollevava da terra, sfiorò con la mano un ciondolo che le pendeva dal collo. Afferrò il pendente tra le mani tremanti: un cristallo trasparente agganciato ad una catena d’argento.

«Forse ci vedremo di nuovo, Kismet…» Il suo sussurro si perse nelle nebbie soffici e bianche. Una promessa, ed un segreto…

“Chiudi gli occhi, Nydia, e sogna…”


Due occhi rossi la fissavano intensamente, troppo lontani tra loro per essere occhi umani, troppo alieni… Nydia tentò di divincolarsi, di fuggire da quella visione, ma era tutto inutile. Quegli occhi sembravano volerle penetrare l’anima.

Ad un tratto una voce gentile le sussurrò: «Aiutami, Nydia… aiutami…» Poi tutto scomparve e lei cadde, cadde…

Quando aprì gli occhi si accorse di essere ancora ai piedi dell’albero sotto il quale si era addormentata, dopo una lunga giornata di cammino. Era abituata a dormire all’addiaccio, avvolta solo nel mantello, senza altra protezione se non quella discreta del bosco e dei suoi abitanti.

Era un’Elfa, e la sua gente aveva stretto un patto fin dalla notte dei tempi con gli alberi e gli animali del bosco: reciproca protezione.

Si stiracchiò e solo dopo essersi rimessa in piedi, si accorse che il bosco non era proprio quello in cui si trovava la sera prima, e come se non bastasse i contorni delle cose che la circondavano erano sfumati, mentre i colori sembravano vividi e grossolani, come immagini tratteggiate in un… sogno… Era un sogno.

Allarmata si guardò attorno, cercando tracce della presenza di un portale magico. Per quanto ne sapeva lei, poteva solo essere opera di una Fata o di un mago, non trovava altre spiegazioni. Si avviò per un sentiero che serpeggiava tra querce e faggi. Foglie morte e umide attutivano i suoi passi e nessun rumore giungeva alle sue orecchie.

Un silenzio innaturale sembrava avvolgere il bosco in un’immobilità sinistra. Strati di muschio verde scuro coprivano come morbide coltri i massi ai lati del sentiero, mettendo in risalto folti gruppi di ciclamini di un viola acceso, unica nota di colore oltre il verde delle piante e il bianco delle rocce calcaree. Proseguì sul sentiero, sempre più perplessa.

Quando trovò la strada sbarrata da un intero cespuglio di biancospino, si fermò e, con estrema cautela, lo aggirò fino ad oltrepassarlo. Quel che vide oltre il biancospino la fece sussultare. Ad una certa distanza davanti a lei si ergeva uno splendido unicorno bianco, che scosse la testa e ricambiò lo sguardo… gli stessi occhi rossi…

Finalmente si rese conto che non erano soli. Tra lei e l’animale c’era un uomo, leggermente spostato di lato, sottovento rispetto all’unicorno e con l’arco pronto a scoccare una freccia, sicuramente fatale per l’animale.

«Nooooo!» Il grido di Nydia echeggiò nel bosco.

L’unicorno svanì come nebbia al sole del mattino, mentre l’uomo si voltò piano verso di lei e, con l’arco ora puntato verso il suo cuore, le sibilò contro: «L’hai fatto fuggire, ora pagherai per…» Non era un uomo, era un Elfo e l’aveva riconosciuta. «Nydia! Ma cosa…»

L’Elfa non gli lasciò terminare la frase, corse verso di lui e gli si gettò al collo con gioia. «Sandor! Cosa ci fai in questo sogno? Mi sei mancato! Da quando hai scelto di vivere con gli umani non sei più tornato a trovarci, io… credevo ti fosse accaduto qualcosa di brutto.»

L’Elfo lasciò cadere l’arco e strinse Nydia tra le braccia e, delicatamente, asciugò con la punta di un dito una lacrima che già scorreva lungo il viso dell’Elfa. «Oh, Nydia! Gli umani sono peggio di quel che credevo. Sono stato assunto da una nobile casata, quella del Conte di Rawiyah, come cacciatore, e tutto sembrava andare bene, mi avevano accettato nonostante fossi un Elfo, fin quando una delle figlie del Conte vide l’unicorno aggirarsi ai confini della tenuta di famiglia. Il Conte ordinò la cattura dell’unicorno, ma chiunque si apprestava a compiere l’impresa rimaneva vittima di strani incidenti. Così il Conte ordinò l’uccisione dell’unicorno, promettendo oro in quantità a chi gli avesse portato la testa dell’animale. La notizia si sparse per tutto il regno e i più abili cacciatori vennero a Rawiyah per portare a termine quella che sembrava una facile impresa; eppure… tutti i cacciatori perirono, tutti tranne me. Una forza misteriosa ci impediva anche solo di avvicinarci a quel maledetto animale…»

«Non dire così, Sandor. L’unicorno è simbolo di purezza ed innocenza, non può essere stato lui ad uccidere quegli uomini. Sicuramente la loro brama di ricchezza li ha portati alla morte.»

«Innocenza? Purezza? Lo credevo anch’io da bambino, ora non più. Per colpa di quell’animale sono stato condannato a morte. Poiché ero l’unico dei cacciatori ad essere rimasto in vita, ed essendo un Elfo, sia il popolo che i nobili chiesero a gran voce la mia testa. Dicono che io sia in combutta con l’unicorno e con il demonio, dicono che la mia morte vendicherà i loro uomini. Sono stato rinchiuso in una cella nel sotterraneo del maniero del Conte e da allora, ogni notte, faccio sempre lo stesso sogno: seguo le tracce dell’unicorno, lo trovo, incocco una freccia e poi tutto svanisce, lasciandomi sudato e tremante ad attendere la mia morte. Nydia… domani all’alba mi giustizieranno.»

Nydia guardò Sandor senza capire, poi lo strinse ancora più forte a sé soffocando il pianto nella tunica dell’Elfo.

«Eppure…» cominciò esitante Sandor. «Eppure stanotte è diverso. Il sogno non è ancora finito, ed ho incontrato te… forse è solo merito del mio desiderio di rivederti prima di morire…»

Nydia spalancò gli occhi e si allontanò da lui, agitando le mani. «No, no, non hai capito! Questo non è un sogno normale! L’unicorno mi ha chiesto aiuto, è stato lui a creare il sogno e…»

«…e a farti giungere fin qui, dolce Nydia!» Dal nulla si era materializzato l’unicorno. Il manto, d’un bianco abbagliante, fremeva e il lungo corno sulla fronte scintillava ai deboli raggi di un sole invisibile. Nessuno dei due elfi riuscì a proferire parola.

L’unicorno continuò: «Sandor, ogni notte punti la freccia verso il mio cuore, ed ogni notte non lasci la corda dell’arco per darmi il colpo di grazia. Credi che sia io a volere ciò? Tu sei l’unico padrone dei tuoi sogni, come lo è Nydia. Ho mandato lo stesso sogno ad ognuno dei cacciatori del Conte, ed ognuno di loro mi ha ucciso in sogno centinaia di volte. Tu non puoi uccidermi, non vuoi… la tua purezza non è svanita. Onora il patto dei tuoi avi, Elfo. Torna dal tuo popolo, proteggi il bosco e i suoi abitanti. Io ti rendo la libertà, e rendo a Nydia il compagno di giochi perduto. Non ero io a chiedere aiuto, dolce Signora, era lui che cercava speranza. Hai avuto molto di più, Elfo; non buttare via ciò che ti è stato donato. Non dimenticare…»

Un refolo di vento prese vita ai piedi degli elfi, trasformandosi in un vortice d’argento. L’ultima cosa che Nydia vide furono due occhi rossi che la fissavano.

Nydia si svegliò di soprassalto. Aveva fatto uno stranissimo sogno ed ora si sentiva completamente frastornata. Poggiò le mani a terra, pronta a tirarsi su, quando si accorse di un enorme fagotto vicino a lei… no, non era un fagotto, ma un mantello e dentro… Alzò con mano tremante un lembo di quella stoffa grigia, e il viso tranquillo di Sandor comparve tra le pieghe del mantello.

Nydia si diede un pizzicotto su un braccio… non stava sognando, non più. Avrebbe voluto svegliare Sandor, abbracciarlo, stringerlo, ma decise di lasciarlo riposare ancora.

Ora, dopo tanto tempo, l’Elfo avrebbe finalmente potuto riposare in pace, lontano dagli uomini, lontano dalla morte, lontano dai tormenti. Sandor era tornato a casa. Un amico ritrovato, ed una speranza mai persa…

“Chiudi gli occhi, Neely, e sogna…”


Quando il vento e la pioggia la investirono con inaspettata violenza, Neely si rese conto che non poteva attardarsi oltre ad osservare la tetra costruzione che s’innalzava davanti a lei. Si chinò a raccogliere Drew, il suo gatto nero, lo strinse a sé sotto il pesante mantello, e s’incamminò verso il ponte levatoio.

Non conosceva bene il castello, era stata invitata a corte una sola volta, più per essere esposta come curiosità alla festa del principe che per cortesia, essendo una delle poche streghe rimaste nella regione di Tannim. Eppure sentiva che in quella strana notte, c’era qualcosa di diverso, forse di pericoloso.

Superò con circospezione il ponte e si avvicinò al portone principale. La pioggia, dopo aver superato la difesa dello spesso mantello di lana che indossava, le colava in rivoli lungo la schiena facendola rabbrividire. Su tutto sembrava aleggiare una lieve aura di terrore e putrefazione, che a Neely sembrò aumentare dopo che ebbe superato l’entrata, stranamente deserta e incustodita.

Mentre avanzava rivide, con gli occhi della mente, il primo giorno in cui aveva attraversato il portico, piena di speranze e di gradevoli illusioni, subito smontate allorquando si era trovata davanti alla corte. Occhiatine irrisorie, sussurri, risolini e, come se non bastasse, nel corso della serata si era resa conto che dietro lo sfarzo e il falso contegno, i nobili nascondevano vituperio, vendetta, cattiveria, avidità.

Ricordava anche il viso scarno e malato del principe, il suo sguardo triste e perso nel vuoto. Aveva sentito dire che la sua malattia era iniziata una settimana prima della festa, e che la sua salute peggiorava di giorno in giorno. La chiamavano la maledizione del castello…

Un lamento lontano, proveniente dall’interno della costruzione principale, la fece trasalire. Il gatto saltò via e soffiando corse lontano, oltre il portico, fino a sparire dalla sua veduta. Neely cercò di richiamarlo con voce debole: «Drew, torna da me, Drew!»

Aveva paura ad alzare la voce, avrebbe voluto correre via da quel posto tetro ma non poteva allontanarsi senza il suo gatto, così si fece coraggio ed avanzò fino all’entrata vera e propria del castello.

Un’altra porta aperta e nessuno in vista. L’atrio era immerso nel buio e lei a malapena riusciva a scorgere le porte dietro le quali si trovavano le scale che portavano ai piani superiori. Procedé in punta di piedi, quasi strisciando contro il muro di pietra grigia e fredda, fino a giungere ad una delle porte interne.

Accostò l’orecchio al legno lucido ma non udì alcun rumore. Piuttosto percepì un lieve ronzio ed una vibrazione che sembrava partirle dai piedi, e salirle dritta fino alle tempie. Abbassò lo sguardo. Il pavimento sembrava una normale distesa di assi di legno consunte… Assi di legno, perché non pietra?

Si batté una mano sulla testa. «Che stupida! La cantina!» O quantomeno le avevano detto che sotto la costruzione principale c’era la cantina; e se Drew fosse andato a finire laggiù? Neely non aveva visto il gatto infilarsi nella porta d’ingresso. Con un gesto di impazienza s’inginocchiò sulle assi del pavimento e pose i palmi a contatto col legno. Era terrorizzata all’idea, ma se voleva ritrovare Drew doveva utilizzare i propri poteri di strega.

Inspirò ed espirò a fondo, poi si concentrò ed infine si abbandonò al potere che era dentro di lei. Lasciò vagare la mente nella sala buia, quindi giù, oltre il piano inferiore, fin nelle cantine, per arrivare a…

Ritrasse le mani di scatto, come se una fiamma le avesse lambite. Il gatto era laggiù, ma non lontano dall’animale si rintanava qualcosa di viscido e oscuro. Si alzò velocemente in piedi, tolse il mantello fradicio di pioggia e si precipitò ad aprire una delle porte, sperando fosse quella giusta.

L’istinto l’aveva guidata, ma si accorse con gioia di aver indovinato: oltre la porta una stretta fila di scalini in legno scompariva verso il basso. C’era persino una torcia accesa infilata in un anello infisso al muro; l’afferrò ed iniziò a scendere gli scalini, con il cuore che le martellava in petto.

«Grande Madre, fa che non sia accaduto nulla di male a Drew…» La sua preghiera bisbigliata risuonò debole nello spazio angusto. La discesa non durò molto, dopo un paio di rampe la torcia illuminò un corridoio stretto e lungo, alle cui pareti erano appesi un’infinità di quadri.

Neely avanzò timorosa al centro di quella bizzarra galleria, e nel percorrerla le parve di andare a ritroso nel tempo. I dipinti raffiguravano volti di giovani con indosso vestiti di varie epoche, dalle più recenti alle più lontane. I loro volti erano pallidi e i loro occhi tristi, proprio come quelli dell’attuale principe. Arrivata all’ultimo dipinto Neely gemé: il quadro era vuoto!

Non ebbe tempo per riflettere su quel che aveva visto, che alle sue spalle percepì all’improvviso il rumore di un respiro raschiante. Inghiottì a vuoto e, senza pensarci due volte, finì di percorrere il corridoio di corsa e, quando le si pararono dinanzi altre scale che conducevano verso il basso, le scese precipitosamente senza voltarsi indietro.

La cantina era fredda. Grosse botti di legno riempivano la maggior parte del locale che terminava sul fondo con una porta. Spinta dalla paura Neely si precipitò a spalancare l’uscio, e grande fu il suo terrore allorché si accorse che era chiusa a chiave. Alle sue spalle il sinistro respiro sembrava farsi sempre più vicino. Con lo sguardo cercò la chiave sul pavimento e nei tratti scoperti di muro, poi, quando oltre il respiro udì anche un suono liquido, come il risucchio di uno stivale tirato via dal fango, si gettò tra le botti, cercandovi riparo.

Per un po’ di tempo rimase raggomitolata dietro una botte, evitando di utilizzare i suoi poteri per paura di essere scoperta; infine si rese conto che il silenzio era sceso nella cantina. Guardinga si rialzò, e si affacciò oltre il bordo della botte.

Non vide il grosso tentacolo che le avvinghiò il polso, ma lo sentì viscido e feroce sulla pelle. Con la torcia stretta nell’altra mano tentò di far indietreggiare la cosa che l’aveva assalita, ma l’unico risultato che ottenne fu di illuminarla. Mai più Neely avrebbe dimenticato un simile orrore. Un essere informe, gelatinoso, che i suoi poteri di strega percepivano come un ammasso di cattiveria ed infamia. Urlò senza controllo, e in quel momento Drew sbucò dal nulla e si lanciò contro il tentacolo del mostro.

Un grido agghiacciante risuonò tra le umide mura del locale… Neely era libera. Strinse con frenesia la torcia in una mano e con l’altra afferrò il gatto per la collottola, poi si lanciò verso la porta chiusa urlandole contro parole magiche.

Neely si alzò in piedi tremante. Era caduta dopo aver superato la porta di corsa, o meglio, dopo esserle passata attraverso, grazie alla sua magia, ma quando si voltò, la porta era scomparsa e al suo posto c’era un muro liscio e coperto di rampicanti in fiore. Perplessa sollevò lo sguardo al cielo dove occhieggiava un bel sole mattutino.

«Sei sorpresa, piccola strega?»

La ragazza si volse con un sussulto verso lo sconosciuto comparso dal nulla. «Chi sei?»

Il ragazzo sorrise e si chinò a carezzare Drew, che si stava sfregando già da un pezzo ai suoi pantaloni di foggia antica. «Io sono stato il primo.» Lo disse con una naturalezza tale che Neely dapprima annuì a quella dichiarazione senza senso, poi ci ripensò e scosse il capo chiedendo: «Il primo di cosa?»

«Di una lunga serie di principi assassinati.» Neely sbarrò gli occhi: la galleria di dipinti, il quadro vuoto, la cattiveria che emanava il mostro…

«Sì, piccola strega. Io sono stato il primo ad essere colpito dalla maledizione del castello. Cinquecento anni fa, quando ebbe inizio la dinastia degli attuali regnanti di Tannim, mio padre morì durante l’ultima guerra. Io, unico figlio maschio, sarei dovuto salire al trono al suo posto, ma mio zio, fratello di mio padre, ambiva al regale seggio e lo bramava a tal punto da avvelenarmi. Di certo a lui non toccò sorte migliore, poiché fu trovato impiccato due sere dopo avermi ucciso. Succedette al trono mia sorella Syonna, che si trovò a dover reggere un intero regno, attorniata da cortigiani appartenenti a due diverse fazioni che si odiavano tra loro: quella che seguiva fedele il re di diritto, e quella che invece parteggiava per mio zio. Nel corso degli anni le faide non ebbero termine, ma continuarono in modo subdolo tra le mura del castello. L’odio e la cattiveria assunsero nuove sembianze, presero forma, la forma mostruosa che hai malauguratamente incontrato pocanzi. L’odio, come sai, è una sorta di potente e malvagia magia che deve trovare uno sfogo, possibilmente sui puri di cuore, ed alcuni principi lo sono.»

«La maledizione del castello!» Neely non riuscì a trattenere l’esclamazione, ma il fatto di aver compreso quale fosse la fonte della maledizione e perché l’attuale principe fosse in pericolo di vita, l’aveva resa improvvisamente ansiosa di andare fino in fondo a quel mistero. «Dimmi, esiste un modo per salvare il principe?»

Il ragazzo sorrise di nuovo, smise di accarezzare Drew e tirò fuori da una borsa legata alla cintura, un sacchetto di velluto scuro. «Ecco, prendi. È una polvere da sciogliere in acqua di fonte.» Dalla stessa borsa estrasse una piccola pergamena. «Questo è l’incantesimo da recitare alla presenza del principe, mentre berrà la pozione ottenuta da questa polvere.»

Neely guardò gli oggetti pensierosa. Il ragazzo le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla.

«Da secoli non nasceva in Tannim una strega par tuo. Sei una delle ultime della tua stirpe ma la più potente. Solo tu puoi spezzare la maledizione. Non voglio far del male al principe, voglio salvarlo. Come ho mandato questo sogno a te, lo manderò anche al re e alla regina, saranno loro a chiamarti, fidati.»

«Questo è un sogno?»

«Questo è un sogno… Addio.»

Si alzò un forte vento, ed un vortice d’argento sollevò in aria Neely e Drew. Il viso sorridente e finalmente in pace dell’antico principe, fu l’ultima cosa che ella vide.

Si svegliò di buonora, come tutte le mattine, gettò via le coperte ed attese che Drew le salisse in grembo per darle il buongiorno, ma il gatto, seduto sul pavimento, non sembrava avere intenzione di rispettare il rito mattutino. I ncuriosita e un po’ perplessa, Neely scese dal letto e si avvicinò all’animale. Quando gli fu vicina si accorse che il gatto circondava con la coda un sacchetto di velluto scuro ed una piccola pergamena arrotolata.

Mentre Neely guardava meravigliata i due oggetti sul pavimento, Drew le si avvicinò strofinandosi contro una gamba e facendole le fusa. Solo allora la ragazza si riscosse e raccolse sacchetto e pergamena. Era stato un sogno, ma ora aveva la possibilità di guarire il principe. Un sorriso le illuminò il viso. «Non è solo un sogno…»

Data la lunghezza dell’articolo, il post è stato diviso in più pagine:

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