Memorie di una Fata che si trasformava in Lupo

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Data di pubblicazione: 12 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

… Il Segreto della Bambina …

La camera era silenziosa. Sottosopra, in disordine, piena di libri e di antiche fatture, come si conviene ad una Fata. Vicino al letto un comodino, quasi un altare dove conservava dei fogli, quelle lettere che lui le aveva spedito tempo prima, il ricordo di un amore sigillato nel cassetto. E poi una lampada ad olio, un coltello a tornarle utile e qualche piccolo oggetto di resina, regalo di chi portava nel cuore.

La scopa era gettata in un angolo, così come le vesti ed ogni cosa potessero distrarla dai suoi pensieri, la Fata non teneva alla forma, convinta che la sostanza fosse ben altro che un quieto vivere all’apparenza. Forse la stanza rispecchiava il suo sentire di bestiola vorace, o forse era una pigrizia innata, dovuta a chiunque sia costretto diversamente. Non se ne curava in fondo, ed aspettava. Prima o poi sarebbe accaduto.

La bambina entrò di soppiatto e guardò la sua ospite dormire. Cercando di non svegliarla, spiava qua e là, metteva le mani tra i vestiti a terra e scopriva tesori, qualche segretuccio per gli occhi infantili superbo, rubacchiava gioielli e fiorellini secchi infilandoseli nella tasca della vestaglia. Poi, all’improvviso, vide la bacchetta, un ramo secco che però brillava, e la afferrò, brandendola come una spada.

La Fata ebbe un sussulto, il rumore di passetti l’aveva destata ed il pugnale era già pronto a colpire, i denti digrignanti e lunghi per mordere, le orecchie tese e il corpo pronto a divenire lupo. L’ombra sgattaiolava furtiva, l’odore era di sangue vivo, il suo preferito, spiccò un balzo ancora mezza donna ed agguantò la preda ai piedi del letto. Ovviamente, la bimba cacciò un urlo.

Rassicurata ed insieme vergognosa per la reazione eccessiva, la Fata consolò la piccola, le chiese scusa, la abbracciò e baciò sulle guance, stringendola a sé e cullandola come meglio poteva. «Scusami, mia cara, perdonami. Ma entrare in una camera di notte è pericoloso da queste parti, non sai mai chi può essere. E se invece di te, mio tesoro, fosse stato un orco cattivo? Ce ne sono, sai? Esistono! Su su, non piangere, è che a volte ho paura, non piangere che ti voglio bene.»

Tra i singhiozzi e i bronci di pupa e le moine della bionda signora, anche i gatti si erano svegliati e si erano intrufolati, rimanendo nel buio. Non si fidavano di quei bambini arrivati per caso, sospettavano sempre, l’indole di un felino è dura a morire pure per un famiglio, ed intuivano un presagio molesto, un odore cattivo. La Fata si accomodò nel letto e fece posto alla bambina. «Mettiamoci qui che stiamo comode, se vuoi ti racconto una fiaba.»

La piccola tirò su col naso e fece segno di sì, ancora rossa in viso e le treccine scomposte, poi indicò un volume, era interessata alle storie del libro nero. «Quello delle risposte? Non te lo consiglio poiché porta sfortuna, ma se proprio lo desideri qualche domanda la possiamo porre, così, per gioco. Nel caso ci penso io a fare magie!» E rise, felice di aver ritrovato il buonumore. «Apriamo una pagina a caso, ti va? E dimmi, cosa vorresti chiedere al libro?»

La bambina la fissava, un sorriso pacifico e sereno, tipico delle creature di quell’età, gli occhi splendevano, il respiro sapeva di latte. Si avvicinò alla Fata, le labbra quasi a sfiorarle il naso e sussurrando le disse: «Voglio sapere… il tuo segreto.» Le baciò una guancia, la guardò un ultima volta prima di scendere dal letto e richiuse la porta, piano. Una luce viola affiorava dalla tasca.

… Amori Differenti …

Correva da tutto il giorno. La Fata era scappata nei boschi quella notte, dimentica di se stessa ed ancora sconvolta per la bambina. Aveva raccolto dei piccoli mostri? Quella creaturina inerme era forse una piccola strega mandata per distruggerla, oppure che altro? Al maschio neppure ci pensava, quasi non lo sentiva parlare, mai un cenno né una risata. Se ne stava lì, silenzioso, e la guardava. Giocava con i gusci che gli aveva portato, quello sì, però sembrava un’ombra. Ma era lei a preoccuparla di più, capiva che c’era qualcosa, e il suo interesse per la magia non era buono. O forse…

Basta, doveva correre, scappare, mangiare, sentire il vento ed ogni lamento, doveva. In ogni modo. Lupa, come sempre, lupa feroce e accanita, lupa che ghermiva la preda ed attaccava e sbranava, lupa che piangeva alla luna.

Il branco la osservava di lontano, restava distante, stavolta era troppo anche per loro. Ne avevano saggiato di poteri di quella bambina, l’aiuto degli animali a volte era inutile. La Fata, bisbigliavano i più grandi, ci sarebbe arrivata da sola. Altrimenti, la porta avrebbe scatenato l’inferno, gli orrori di nuovo in giro, le catene anche al loro collo. No, impossibile solo a pensarci, meglio dividersi un orso e starsene buoni per quella volta, il sangue era caldo ed un corpo da dividere in tanti presagiva lotta. O sottomissione. Un lupo grigio sbatteva la coda, non era d’accordo, la amava come non gli era mai successo, voleva avvisarla e leccarla, poi fuggire insieme. Un nuovo branco da riformare, dei cuccioli magari, una grotta per tana e chissà quante lotte. Un sogno di lupo, non era che questo, un sogno impossibile dove un Fata che diviene fiera ed una bestia si possono unire.

Ma poteva rifiutarsi comunque… Già il dolore di quel giorno alla finestra, quando era donna ed attorniata dai gatti, gli aveva squarciato il cuore. Ed era stato pavido, la paura per quegli occhi puntati addosso aveva preso il sopravvento, con la coda tra le gambe l’aveva abbandonata e neanche se n’era accorta. Un semplice lupo, un compagno di scorribande… Ora conosceva un segreto.

La Fata avvertì un rumore, i passetti leggeri del suo buon amico, lo vide e gli andò incontro, le orecchie abbassate in segno di circospezione, le piaceva giocare a quattro zampe. I denti scoperti, un balzo improvviso e subito gli fu sopra, poi lo morse sulla groppa ed infine si rivoltò, a pancia scoperta. Vulnerabile.

Il lupo la fissava, imponente ed agitato, un subbuglio di pensieri e di vene pulsanti, poi le si accoccolò accanto. «Costruisci un Golem.»
La Fata ebbe un sussulto. Che diavolo stava dicendo? Erano lì per nutrirsi, per barattare la libertà con la morte, erano lì senza un motivo.
Gli azzannò una coscia, lo sbatté da tutte le parti, lo prese a calci e guaì di rabbia, lui non si dibatteva. Senza fiato, rinvenne donna ancora nuda lo accarezzò. Poi scappò via. Il lupo la guardò svanire, gli alberi parevano averla ingoiata. Si era saputo frenare.

… Il Patto …

La Fata tornò a casa convulsa, in preda agli spasmi e fuori controllo. Un Golem non era affar suo, il vessillo immaginario, lo schiavo ebraico che tutto può distruggere e tutto annulla, un servo d’argilla che si rivolta contro. Sbattendo la porta cominciò a gridare, la biblioteca era in disordine. I gatti si nascosero dietro alle tende, i folletti correvano impazziti – la loro padrona dava di matto! – e il drago quasi soffocò nel fumo di un primo getto di fuoco che stava provando.

«Dov’è, accidenti! Dov’è?» La Fata gettava i libri da ogni parte, il ripiano più alto della libreria si mise a tremare (nelle case Fatate anche i mobili sono vivi), dei topolini si affacciavano per poi fuggire di nuovo nei loro buchi. La Fata era proprio arrabbiata. Uno dei bambini fece capolino nella stanza, osservò per un po’ quel trambusto e poi, con fare noncurante disse: «Perché non chiedi a mia sorella?»

La Fata lo guardò di sottecchi, pure il piccolo scocciatore ci si metteva! Ma in effetti aveva ragione, la bambina sembrava dotata di poteri magici o, perlomeno, pareva alquanto attratta. «D’accordo, carino, portami da lei. Ma stavolta vi voglio insieme, che possa tenervi sotto controllo.» Prese il bimbo per mano, si fece condurre nella cameretta dei giochi e… sorpresa!

La ragazzina stava saltando sui muri con in mano la sua bacchetta. Scintille verdi e viola, sprazzi di luce e qualche scintillio molesto, una sagoma iridescente di corna e zampette che prendeva forma, uscivano dai movimenti che l’incredibile fanciulla poneva all’oggetto, ma quello che più lasciò con un palmo di naso la Fata, fu vederla vincere la gravità. Chi erano quei bambini che aveva preso con sé?

Velocissima si lanciò sulla bimba, le strappò di mano la bacchetta e finalmente le tirò un ceffone. «Piantala immediatamente, piantala coi tuoi trucchetti o vi riporto subito nel bosco dove vi ho trovati, così che i miei amici vi possano mangiare. Intesi?»

Due occhi funesti e pieni d’ira fissarono la Fata, a cui parve d’intravedere il buio, poi, dispiaciuta, la bambina si calmò, chinò la testa e rimase in silenzio, singhiozzante. La Fata si commosse, d’altronde era di cuore tenero, e dabbracciando i fratellini (il più piccolo nel frattempo si era avvicinato) fece con loro un patto: «Sentite bambini, io mi sto affezionando a voi, ma so anche che nascondete un segreto. Tutti ne hanno uno, non m’importa. Però, se volete restare con me, dobbiamo metterci d’accordo. Allora, vi chiedo soltanto di non rubarmi niente e di essere, se lo desiderate, i miei giovani apprendisti.»

A queste parole i bambini cacciarono urla di gioia, zompettarono intorno alla Fata e giurarono di esserle fedeli. Un giorno, promisero, le avrebbero persino raccontato di chi erano figli. La Fata scosse la testa, le manifestazioni di troppa ilarità la infastidivano sempre un po’, e disse loro di seguirla, un cambio d’abito prima dell’ennesima messa in scena. Toccava darsi da fare.

… La Creazione del Golem …

La Fata era vestita di nero, un abito di seta grezza e velluto, piccoli intarsi color vinaccia sotto il seno. La schiena era scoperta in parte, un corsetto a stringere la vita e delle strane scarpe, alte, di un materiale diverso e lucido. Ricordava una dama oscura o una strega dei racconti, in fondo si avvicinava il giorno.

I bambini la guardavano ammirati, anche loro cambiati d’abito, delle miniature di lei ma con spirito affine ai folletti, erano giovani e qualche speranza di verde dovevano ancora averla. Almeno, così la Fata si augurava. Certo, era in dubbio sulla bambina, benché le promesse di fedeltà sembrassero essere sincere, comunque ci avrebbe pensato più tardi. Era giunto il momento di mettersi all’opera.

Li portò nel seminterrato e il laboratorio si aprì, dopo un lungo scossone alla porta fantasma che di tanto in tanto si ribellava. Un legno pregiato, regalo del vecchio amico dei boschi, ma incantato e vivo, si diceva che un tempo fosse stato un guerriero tramutato in albero dal Re degli Elfi per la sua impudenza. Favole tanto per dire, ma un bello scossone evitò che la porta addentasse malignamente le dita del maschietto che toccava qualche buco di troppo.

Ampolle, vetrini, croci rivoltate, pentole a bollire sui fuochi. La stanza apparve subito un altro luogo dei giochi per i fanciulli. E con quali occhi guardano i vasi contenenti i nani mummificati, con quale fiato sospeso aspettavano di sapere che diamine erano scesi a fare…

Correvano tra le candele appoggiate ovunque, leggevano incantati brani di magie scritte sui cartoni, buttati alla rinfusa. La Fata non riordinava mai neanche lì dentro, un’accidenti di salamandra sbucò da dietro un tavolo e morse il calcagno del maschio, poi scappò via per non farsi calciare.

La stanza dei misteri, era questa allora… I bambini presero a confabulare e la Fata li vide, si avventò già arrabbiata e li strattonò con forza: «Ricordatevi la promessa, o vi getto in pasto ai lupi!» Prese una frusta, giusto per farsi intendere bene, e se la legò alla gonna, poi li chiamò a sé. «Ora ascoltatemi, dobbiamo iniziare. Mi hanno detto che abbisogna di un Golem, un essere particolare. Voglio che facciate attenzione, ma vi concedo anche la mia fiducia. Proviamoci e lo faremo insieme.»

Il silenzio cadde, finalmente. I bambini, quasi in trance, sedettero accanto alla Fata, ora loro padrona, con le manine giunte, in preghiera.
«Ondeggiate, entrate dentro per me…» I bambini mugolavano, i versi erano gli stessi, sempre uguali, sempre più sommessi. All’improvviso rivoltarono il capo svenuti.

La Fata li osservò e riprese il suo canto mentre impastava fango. L’altare era macchiato di sangue, i ricordi prendevano forma, le lacrime scendevano copiose a bagnarle le guance. Le ali comparvero dal niente, nere come il vestito. Ecco, il fantoccio era pronto, girò tre volte intorno all’argilla morta, incise emet sulla fronte. Ed aspettò.

… Il Golem prende Vita …

Si mosse appena. La Fata, quasi addormentata nell’attesa, sentì un fruscio, un leggerissimo battito sul legno, qualcosa di appena udibile. Sembrava un battito, ecco, come il battito di un cuore, ma di quelli degli uccelli. O dei neonati.

Restò ferma, pronta a scattare all’evenienza, l’esperimento poteva mettersi male e sapeva che i Golem ubbidivano ai padroni, ma potevano ribellarsi. Giravano molte dicerie sugli stregoni che ci avevano provato, alcune terribili, e quei fantocci erano pur sempre pericolosi. Il caldo si fece insopportabile, un tanfo di fango e sangue e misture varie impregnava l’aria, i bambini erano distesi a terra, li scansò con un calcio. Lo spettacolo che le si presentò davanti era fuori anche dal suo personale immaginario.

Il gigante si mise seduto, senza neppure una vibrazione, composto ed imponente, spaventoso. Si aspettava lampi e saette, il genere di incredibili fantasie che si leggono nei libri, il temporale che incombe e voci d’oltretomba, invece l’essere possedeva un fascino tutto suo, era quasi… composto.

La fissò, due occhi neri e foschi, la fissò a lungo. E sorrise. La Fata credé d’impazzire, lo sguardo del Golem era mistero, e fascino, e paura, e morte. E dedizione. Vide le fiamme, conobbe il dolore, ricordò.

Sentì le voci, sì, ma erano altre, venivano da lontano: «Vieni con noi, sei solo un sogno. Vieni con noi, perché tu non esisti.» La Fata vorticò, o così le sembrava, in un rosso tempo di nulla, sollevata, assente, le voci sempre più vicine. Risate, risate, risate! E la consapevolezza di morire. O di non esserci mai stata. Qualcuno la strattonò.

La bambina era al suo fianco, immobile, il maschio in ginocchio, e parlavano una lingua sconosciuta. Il Golem li accarezzava, ancora seduto sul tavolo della sua creazione, la testa reclinata e la bocca aperta. Una lingua piuttosto gonfia e scura, pendeva dalle labbra nel tentativo di emettere suoni.

La Fata era piegata in due, lo stomaco contratto, gli abiti sporchi ed imbrattati. Ma era sveglia. Non capiva cosa fosse successo, era chiaro però che quelle creature c’entrassero molto ed il gigante d’argilla un gioco, una sorta di tranello in cui era caduta con tutte le scarpe.

Piccole serpi in seno, malefico essere creato da una pozzanghera, non riusciva ancora a muoversi, ma fingere di essere posseduta poteva esserle di aiuto. Doveva recuperare le forze.

… Morte di un Amore …

Ancora in ginocchio, con lo stomaco contratto e il respiro ansante, la Fata guardava di sottecchi quanto stava accadendo. I bambini che parlavano con quel mostro d’argilla, la femmina con gli occhi divenuti fessure, il maschio dal volto di serpe e il Golem, forse il più innocente (visto che niente era, se non un tramite), assentire con fare dimesso. Un fantoccio coi suoi padroni.

Qualcosa era andato storto e lo immaginava, ma c’era dell’altro. Non solo un incantesimo riuscito male, che fosse poco pratica in quei sortilegi lo sapeva bene, ma nei sussurri per risvegliare il mostro si era accorta di un interesse troppo convinto dei due fanciulli, l’ondeggiare sospetto e tutto l’insieme, che non aveva voluto vedere per giorni. Il sentore di un tradimento che comunque preferiva non capire.

Cuore di Fata, a volte si lasciava andare ai sentimenti e si sa, quando le Fate amano rischiano di brutto. E quindi, pure coi bambini era successa la stessa cosa di un tempo, ora ne pagava lo scotto. Gli indizi erano evidenti, la piccola che rubacchiava segreti, l’atteggiamento furtivo di entrambi i fratellini, i lupi che erano fuggiti… che cosa poteva pretendere? Intanto la malia della confusione ancora la tratteneva, il desiderio fortissimo di una “non esistenza”, quelle maledette voci che la chiamavano ridendo. La dileggiavano. Basta!

La Fata chiamò a sé il coraggio, la forza, la volontà. Ogni antico potere in suo possesso. E ricordò. Il fuoco divampò nelle vene, gli artigli crebbero, l’aspetto ferino mutò il bel volto contratto dal dolore, dalla consapevolezza dell’ennesimo fallimento, in un viso di bestia, ed un ghigno risuonò nella stanza. I bambini neanche si accorsero, giusto il momento di voltarsi che un lupo con fattezze umane era su di loro.

Il maschio fu il primo, sbattuto contro un armadio, le ampolle caddero rotolando ed alcuni liquidi si sparsero sul pavimento, strie verdi e ragnetti ne uscirono sgambettando. Uno schiocco, come di un tappo di bottiglia, e la colonna vertebrale andò in frantumi.

La bambina sembrava impazzita, corse dal fratello ridotto in pezzi, le gambe e la testa quasi unite all’indietro in una posizione innaturale e quasi buffa, un rantolo a mostrarne l’ultimo soffio vitale. La Fata la afferrò con le zampe e se la mise di fronte al muso, voleva guardarla in faccia e non darle l’opportunità di una lacrima versata, neppure una.

Si guardarono infatti, dritto negli occhi. Amore, odio, qualcosa di troppo lontano e non riuscito, il mentore e la sua pupilla. O una madre ed una figlia. La bimba continuò a fissare, anche dopo che la Fata le squarciò la gola. Continuò in uno sguardo vuoto, anche dopo l’ultimo bacio. Continuò, anche da morta.

Gettò i corpi in un angolo e si occupò del Golem, ancora intento nel tentativo di alzarsi. Senza il suo padrone era debole. Le ci volle un attimo, qualche robusta zampata e pure il tempo di ricomporsi e tornare donna, per gettargli dell’acqua. Lo vide scomparire, quasi sfumare, come fosse un fantasma. Lo spettro da cancellare di un passato troppo pesante, soltanto un gioco da dimenticare.

Ecco, del motivo di quello scempio non rimanevano tracce, un fumo leggero e un po’ di polvere fangosa su un tavolo, macchie di sangue che di lì a poco i folletti servitori avrebbero pulito. Raccolse i cadaveri dei bambini tra le braccia e li riportò in camera, per ricomporli. Li vestì degli abiti più belli che aveva cucito per loro, e li avvolse in una spessa coperta di lana, per non prender freddo.

Indossò un abito nero e si avviò nel bosco, volando nei cieli coi bimbi stretti al petto. Trovò l’ingresso che cercava, una caverna piuttosto nascosta in mezzo a fronde di robusti larici e pioppi neri, e vi depose i due fratelli. Li accarezzò, li coprì come meglio poteva, li lasciò abbracciati che pareva dormissero e corse via, di nuovo lupo.

Un falco discese in picchiata per raccogliere una piuma, mentre dalla caverna qualcuno chiudeva la porta…

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