Avventure Lottiane

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Data di pubblicazione: 20 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

❖ La Spada Benedetta ❖

La vita scorreva tranquilla per l’Hobbit Paimon, ma una notte il suo sonno era agitato, si rigirava in continuazione tra le lenzuola, fino a che, d’improvviso, si svegliò, sconvolto dalle immagini di un sogno.

La Signora, che già una volta era apparsa nei suoi sogni, era tornata, ordinandogli di costruire la prima Arma delle Razze: la Spada Benedetta.

Aprì di corsa il libro che da qualche tempo giaceva chiuso sul suo comodino e cominciò a sfogliarlo, le pagine, prima immacolate, erano di nuovo state scritte. Lì lesse le parole che la Signora gli aveva detto in sogno, la forma che avrebbe dovuto avere la Spada, le dimensioni, il metallo, e poi lesse anche che avrebbe dovuto condurla attraverso il cammino dell’Albero della Vita.

Se fosse riuscito a tornare con la Spada superando tutti i Sephirot, avrebbe potuto incastonare sull’elsa la prima delle pietre gemelle, il diamante; solo in seguito la avrebbe consegnata agli Angeli che avrebbero dovuto accompagnarlo ed aiutarlo durante il suo cammino. Quindi riunì gli Angeli alla Rocca, pronti per partire per questa nuova avventura.

Oltre a Paimon, giunsero gli Hobbit Petunia, Denteferox, la Detentrice dell’Arcana Saggezza Sixie, e gli Angeli Novecento, Adya, Dune, Nighteagle e la Consigliera dell’Arcana Saggezza Valuccia.

Paimon stava tranquillamente mangiando una mela mentre attendeva gli altri, la luna li guardava sorniona. Finita la mela, aprì la sacca che aveva con sé e salì su di un masso, mostrando ai presenti il famoso libro.

«Vi ringrazio per essere venuti qua ad aiutare gli Hobbit. Vedete, questo libro è molto importante per noi, abbiamo chiesto il vostro aiuto perché abbiamo una missione da compiere: portare questa Spada attraverso un cammino, il cammino dell’Albero della Vita. È scritto qui, in questo libro. In passato tutto ciò che vi era stato scritto si è compiuto. Qui è scritto che solo voi Angeli potete aiutare noi Hobbit in quest’impresa.» Mentre Paimon parlava di fronte ai presenti la luce della luna indicò un sentiero, sembrava invitasse i presenti a percorrerlo.

Il Primo Sentiero era chiamato Malkut, il Giardino delle Delizie. L’Angelo Novecento si offrì di perlustrare in volo il percorso, ma un’ombra era ferma davanti all’inizio di questo, non permettendo a nessuno di passare oltre.

Paimon non se n’era avveduto e camminava, girandosi poi di scatto dopo essere stato richiamato da chi aveva veduto l’ombra. Questa si rivelò essere una figura femminile, che stava in quel momento osservando enigmaticamente Paimon.

L’Hobbit si voltò verso il punto che gli veniva indicato e fece un salto indietro, notando finalmente la figura femminile, era una donna bellissima, che sembrava assorbire tutto il potere della luna, continuava a guardare impassibile Paimon, poi parlò, la sua voce era dolce e per nulla ostile: «Benvenuti, avventurieri, io sono il Femminile per eccellenza. Io sono la Sposa desiderata. Io sono la Shekhinà. E voi, chi siete? Chi vi ha fatto giungere fino al Sacro Sentiero?»

Alcuni la guardarono stupiti, facendo scorrere lo sguardo dalla donna a Paimon e viceversa; l’Hobbit si fece coraggio e le disse che dovevano passare perché avevano una missione da compiere, ma la donna asserì: «Per passare da questo sentiero dovete dimostrare di esserne degno.»

Le ipotesi cominciano a correre tra i presenti, la Fata Sixie sussurrò ridacchiando a Paimon, che forse avrebbe dovuto sposarla giacché aveva detto di essere la Sposa desiderata, però in seguito vennero distratti dal fatto di essere degni o meno, cosa mai aveva voluto dire?

«Solo il Mago che è giunto alla conoscenza, può passare attraverso il Sentiero dell’Arcano: il Mondo.» Le parole della donna erano sempre più misteriose; ella poi spostò il suo sguardo sull’Angelo Adya e sulla Fata Sixie, addolcendo l’espressione.

La Fata guardava la donna ripensando alle sue parole, poi parlò e disse che il Mondo ed il Mago erano due Arcani Maggiori dei Tarocchi, poteva forse esserci un collegamento? La Shekhinà attendeva una risposta da Paimon, mentre dalle ombre una nuova figura apparve, era un uomo, vestito di verde che si avvicinava velocemente ai presenti: «Benvenuti, stranieri, benvenuti nel Sacro Sentiero. Io sono Mopia, il Mago che è giunto alla conoscenza. Voi volete passare da questo sentiero? Dimostratemi di esserne degni e vi donerò la mia bacchetta e la mia verde veste.»

I presenti si volsero stupiti alle parole della nuova figura, mentre un’altra persona arrivava volando e travolgendo la Consigliera Valuccia, era l’Arcangelo Halley e per un attimo la luce della luna venne coperta dalle sue grandi ali. Il Mago parlò ancora, distraendoli dal nuovo arrivato, disse che avrebbe posto due indovinelli, se essi avessero trovato la soluzione sarebbero stati liberi di passare.

Tutti attendevano trepidanti l’indovinello e questo fu prontamente posto: «Vedere non si può e neanche sentire, né fiutare e neppure udire. Sta sotto i colli, sta dietro le stelle ed empie tutti i vuoti, tutte le celle. Per primo viene, ultimo va, a vita e a riso termine dà.»

Mentre tutti pensavano alla possibile risposta, improvvisamente Novecento esclamò: «Il buio!» Il Mago sorrise perché la risposta era giusta.

Nel frattempo Paimon aveva strappato, con fare furtivo, una piuma dalle ali dell’Arcangelo e l’aveva nascosta in una tasca, mentre attendevano il secondo indovinello.

«Questa cosa ogni cosa divora, ciò che ha vita, la fauna, la flora; i Re abbatte e così le città, rode il ferro, la calce già dura; e dei monti pianure farà.» Subito più voci si unirono in coro nella risposta, l’acqua, questa volta era stato facilissimo giungere alla soluzione.

Il Mago sorrise nuovamente e disse che ora potevano passare, consegnò la veste verde e la bacchetta a Paimon e fece segno alla Shekhinà di spostarsi per farli passare. Paimon tutto contento indossò subito la veste ed impugnò la bacchetta con un’aria molto regale; gli altri lo seguirono, ma la Shekhinà gli si rivolse, dicendo che aveva ancora una cosa da indovinare.

Tutti si voltarono (gli indovinelli erano due non tre) chiedendosi cosa mai potesse esserci ancora. Paimon la guardò trepidante, in attesa di sentire la richiesta.

«Paimon, dovete scegliere due dei quattro oggetti che ho in mano.» La figura mostrò quattro oggetti: uno in oro, uno in rame, uno in bronzo e un pezzo di pane. «Dovrete scegliere due oggetti da dare alle Divinità che caratterizzano il Sentiero e due le restituirete a me» disse sogghignando. Le voci si fecero concitate. Meglio oro e pane? Oro e bronzo? Pane e rame? Le ipotesi erano tantissime, ma l’Angelo Arbegas affermò che la scelta era di Paimon, e che il suo cuore avrebbe sicuramente fatto la scelta giusta. Paimon decise sicuro: «Vi do il bronzo e il rame, tengo l’oro e il pane.»

Mentre Paimon parlava, un trotterellare allegro si sentì in lontananza, qualcuno si voltò e riconobbe da lontano Hursuss l’asinello. Anche la Shekhinà lo notò e, dopo aver proclamato a Paimon che la prova era superata, si voltò con gli altri per guardare la simpatica creatura che giungeva.

La Shekhinà consegnò l’oro e il pane a Paimon, poi la compagnia proseguì il suo cammino lungo il Sentiero del Malkut, per arrivare al Secondo Sentiero: lo Yesod, la Valle Segreta.

Alla fine del sentiero si vedevano delle figure, figure strane che non risposero alle domande che venivano loro poste; in risposta tuttavia cominciarono ad impugnare le armi. La Consigliera Valuccia sguainò la sua spada di luce e, alla vista di questa, le presenze indietreggiarono timorosamente.

Le figure erano tante ed armate, parevano non avere intenzione di far passare il gruppo; l’Arcangelo Halley mandò quindi in avanscoperta gli Angeli Arbegas e Novecento.

Le figure osservavano Arbegas, avanzando verso di lui, quasi a volerlo avvolgere nella loro ombra; egli aumentò la sua aura e le ombre a lui più vicine indietreggiarono, facendo cadere le armi che avevano in pugno, anche se quelle più indietro continuavano ad avanzare. Un’ombra gridò agli Angeli di andarsene e che non sarebbero mai passati di lì; continuavano ad avvicinarsi a Novecento, ma questi li fronteggiava sicuro, stavano cominciando ad irritarsi per la luce che emanava.

Le ombre man mano che la luce degli Angeli aumentava, gridavano, non volevano farli passare, ma non resistevano alla vista della loro luce. Le urla agghiaccianti delle ombre, invasate dalla luce angelica erano cariche d’odio, paura, angoscia e morte… come se mille voci venute dalle Tenebre, fossero state improvvisamente costrette a vedere la Luce.

Ora le ombre stavano tentando di avvolgere Novecento tra le loro spire, e l’Angelo pareva quasi offrirsi a loro. Le ombre puntavano le loro spade contro di lui, ma egli continuava a ripetere che loro giungevano in pace e le ombre non potevano fare a meno di indietreggiare, accecate da quella luce che gli Angeli e la Fata stavano emanando. Urla terribili riecheggiavano nell’aria… emesse dalle ombre mentre stavano cominciando a sparire, diventando polvere.

L’esercito d’ombre ormai si stava dissolvendo nel nulla, rimase di queste solo il ricordo delle loro urla, tanta polvere per terra ed un recipiente a forma di camelia, che fu raccolto da Paimon, mentre tutti incuriositi gli si avvicinavano. Lo aprì e vide che conteneva oro e mercurio, separati da una membrana.

Molte le domande che si ponevano i presenti, a cosa servissero e perché erano rimasti a terra al posto delle ombre un metallo solido ed un liquido, entrambi preziosi. Il sentiero ora era libero e di esso finalmente s’intravedeva il termine.

Alla fine si trovava la Casa degli Incantesimi e, davanti a questa, di nuovo la Shekhinà. Ella fece cenno a Paimon di avvicinarsi a lei. «Avete avuto molto coraggio se siete riusciti ad arrivare fin qui. Credo che voi abbiate qualcosa per me, piccolo uomo.» Poi, indicando il contenitore con la mano, continuò con tono serio dicendo: «Per passare dovete consegnarmelo e sappiate che ciò che mi offrite adesso, io ve lo restituirò nel momento del bisogno.»

L’Arcangelo Halley la guardava un poco dubbioso; Paimon scorreva lo sguardo tra i due, chiedendosi cosa dovesse fare, se consegnarle o meno l’oggetto, ma la Shekhinà parlò ancora: «Angelo, non voglio farvi del male, ma state attraversando i Sephirot, ove ogni Sentiero pretende qualcosa in cambio per essere attraversato.»

La Fata Sixie mormorò che era meglio dargli ciò che chiedeva, in fondo l’avrebbero ritrovata se diceva che l’avrebbe restituita. La Shekhinà si voltò verso la Fata sorridendo: «Certo, m’incontrerete ancora, è un lungo viaggio quello che vi attende, i pericoli e le sorprese non sono finite. Io vi aiuterò quando posso, ma ricordatevi che state attraversando l’Albero della Vita. Adesso coraggio, consegnatemi gli altri due oggetti e proseguite il vostro cammino che è ancora lungo» concluse, osservandoli con gli occhi coperti da un velo di tristezza.

Paimon si decise e consegnò l’oggetto a forma di camelia alla Shekhinà. Ella sorrise al piccolo Hobbit: «Siete saggio, non sfidate l’Albero della Vita. Ora andate, ancora una prova vi aspetta oggi, forse la più difficile di tutte per questa parte di sentiero.»

Il gruppo si rimise in viaggio; man mano che avanzava il vento si faceva sempre più forte, mentre il sentiero era illuminato da mille luci… l’aria, nonostante il vento, era caldissima, le folate sferzavano i presenti che, impavidi, proseguivano per la loro strada. Da lontano s’intravedeva un fuoco; più si avvicinavano ad esso, più si sentiva il crepitare delle fiamme e l’acre odore del fumo. In mezzo a questo giaceva un cancello enorme; ai due lati una torre bianca ed una nera, tutto intorno solo fuoco e vento.

Il caldo era insopportabile e l’ululato del vento fortissimo; accanto al cancello scorsero una bilancia, sopra questa una scritta: “Il cancello si aprirà solo se l’aria avrà, da una parte il vento forte, dall’altra il fuoco e la sua sorte”.

L’Angelo Arbegas osservò intorno, poi chiese che il piccolo Hobbit e la Fata si avvicinassero a lui. L’Angelo Novecento pensò che su un lato andasse il mercurio, il lato del fuoco, visto che era liquido e che quindi non avrebbe cambiato la sua forma. Gli Angeli provarono a contrastare il vento con le loro ali, ma non ci riuscirono giacché era troppo forte, tanto da piegarle.

Ad un certo punto Paimon prese la piuma e la posò sul piatto della bilancia; in quel preciso istante il vento smise di soffiare. L’Angelo Novecento vide un pezzo di legno a terra, rifletté un attimo e lo posò sull’altro piatto della bilancia, così anche il fuoco cessò. La piuma dell’Angelo, simbolo dell’aria, ed il legno, simbolo del fuoco, fecero sì che l’incantesimo venisse spezzato: il portone si spalancò davanti ai presenti stupiti. Dopo il cancello apparve un sentiero, in fondo a questo si trovava il Giardino della Bellezza.

Li trovarono ad attenderli, come sempre, la Shekhinà. L’aria era serena nella notte e la luna risplendeva, illuminando lo splendido giardino, la Shekhinà sorrise alla compagnia che avanzava.

«Ci siete riusciti. Avete superato anche l’ultima prova. Sono fiera di voi!» si complimentò. «So che siete stanchi.» Poi, rivolgendosi a Paimon: «Posate il vostro prezioso fardello nei giardini, conficcate la Sacra Spada nel terreno. Dovrà restare qui un po’ di tempo. Qui è al sicuro, ma ricordate che il vostro viaggio non è terminato; ora tornerete nelle vostre case, ma presto ci rivedremo. Io proteggerò la Spada Benedetta in vostra assenza, valorosi compagni.»

La Shekhinà alzò le mani sui presenti, questi immediatamente si addormentarono e, quando si destarono, erano di nuovo a Lot, presso la Rocca. Decisero quindi di tornare alle loro case in attesa del prossimo viaggio.

Dopo qualche tempo, la compagnia di Angeli ed Hobbit si trovò di nuovo nel luogo convenuto per partire, per percorrere un nuovo tratto dell’Albero della Vita e portare, così, a termine la loro missione. Improvvisamente il disco della luna venne oscurato dalle nubi e, successivamente, una forte luce abbagliò i presenti, avvolgendoli completamente.

A poco a poco, questa scomparve ed i presenti si ritrovarono nel Giardino della Bellezza, dove la volta precedente avevano lasciato la Spada in custodia alla Shekhinà. Infatti la trovarono lì, dove l’aveva lasciata Paimon, e dietro a questo giardino notarono un sentiero molto ampio.

L’atmosfera non era delle migliori, anzi, era molto tetra, infatti ben presto il percorso si rivelò per quello che era: delle croci apparvero loro, tombe, grotte e caverne era ciò che si stagliava davanti ai loro occhi man mano che andavano avanti. La compagnia si aggirava unita, preoccupata e molto guardinga tra le tombe, chiedendosi come mai fossero finiti in un cimitero.

Il Senatore Paimon chiese alla Fata Sixie che carta dei Tarocchi potesse rappresentare quel luogo, ed ella rispose che si poteva trattare solo della carta della Morte. In fondo al sentiero una sagoma si stava delineando ed il gruppo s’avvicinò di più per capire cosa potesse essere.

Quando furono davanti a quella che si rivelò essere una statua, alcuni di loro fecero un balzo accompagnato da un urlo, perché rappresentava uno scheletro orribile con una falce in pugno. Attaccata alla falce stava una catenella spezzata che ciondolava al vento cigolando, probabilmente un tempo qualcosa era attaccato lì. Si strinsero tra loro, mentre si guardavano intorno, notando da una parte una grotta e, dietro la statua, un grande cancello.

L’Arcangelo disse che dovevano stare tranquilli, sembrava che la statua li guardasse e il continuo cigolare pareva un segnale, come se dovessero attaccare qualcosa a quella catena; anche il grande cancello, dietro la statua, rappresentava un enigma, come se richiedesse un lasciapassare, giacché non si apriva.

Guardando meglio scorsero sopra il cancello una didascalia, mezza rovinata dallo scorrere del tempo: “La via della Morte avete percorso, quanto tempo è ormai trascorso? La testa gli hanno staccato, ed ora il cancello è ancora sbarrato”. Cominciarono a scambiarsi le varie possibili soluzioni, ma poi notarono che la statua pareva guardare la grotta vicino a loro.

La Fata Sixie provò a sedersi dentro l’ultimo anello della catenella, per vedere se riusciva a fermare il suo continuo ondeggiare e cigolare, ma con scarsi risultati: un forte vento la sbalzò via, come a farle capire che non fosse la mossa più adatta. In seguito pensarono di mettervi il Senatore ma, dopo poco, scartarono anche quest’idea.

Decisero allora di andare a vedere la grotta, era vicina e la statua, in fondo, pareva guardarla. La grotta si presentava buia, non vi erano luci all’interno e l’odore che ne usciva portato dal vento non era dei migliori. L’ingresso era ostruito da alcune ossa, gli Angeli e la Fata illuminarono la propria aura e la grotta apparve vuota, con un grande foro al centro.

Si avvicinarono al bordo e videro che questo sembrava scendere sotto terra, si poteva notare una piccola scala di pietra che conduceva in basso; l’Hobbit perse l’equilibrio e rotolò giù per la scala, mentre gli altri scendevano lentamente e la Fata volava, ma arrivati in fondo cozzarono contro qualcosa di duro.

Un silenzio surreale ristagnava nella cripta, mentre un fetido odore di morte s’innalzava intorno a loro. Si guardarono intorno, un po’ spaesati, la luce degli Angeli rivelò loro un panorama alquanto desolante e lugubre: ammassi d’ossa li circondavano e, al centro della cripta, giaceva un piccolo altare con sopra un teschio.

La compagnia si guardò intorno e poi tra loro, una cosa pareva chiara a tutti: toccare il teschio avrebbe voluto dire far scattare quasi sicuramente qualche trabocchetto, se quello era il teschio che stava appeso alla catena della statua. La Fata Sixie ipotizzò che, forse, se avessero messo al posto del teschio un qualcosa d’eguale peso, non sarebbe accaduto nulla di grave.

Improvvisamente però si cominciarono a sentire degli scricchiolii sinistri, i presenti si voltarono e videro che le ossa stavano muovendosi da sole e prendendo forma; degli Scheletri si stavano ricomponendo ed alzando da terra… I volti di tutti erano abbastanza sorpresi e impauriti da quanto stava accadendo, l’Angelo Novecento presa la spada, tirò un colpo secco al teschio, facendolo rotolare via dalla specie d’altare dove era posato, ma purtroppo rotolò proprio vicino all’esercito di Scheletri che si era formato in quei pochi attimi.

Il Senatore Paimon afferrò subito il teschio, mentre gli Scheletri li guardavano minacciosi con occhi di fiamme. Gli Angeli subito cominciarono a far brillare la loro aura, mentre brandivano le spade contro gli Scheletri che si stavano avvicinando, ma che di fronte alle luci indietreggiavano esitanti.

L’Arcangelo Halley disse che gli Scheletri temevano molto più il fuoco che la luce, e sentendo tale affermazione la Fata Sixie, Fata del Fuoco, disse che poteva provare a creare dei fuochi illusori, magari gli Scheletri l’avrebbero bevuta e loro sarebbero riusciti a scappare indenni. Gli Scheletri cadevano sotto i colpi di spada degli Angeli, mentre la Fata, aprendo una mano verso di loro, si concentrava per far scaturire una fiamma illusoria che solo loro avrebbero visto, alcuni Scheletri disturbati dal colore rosso vivo delle sue ali si stava dirigendo verso di lei, ma l’Angelo Novecento prontamente riuscì a colpirli; alla vista della fiamma gli Scheletri s’impaurirono e gli altri cercarono di approfittare del momento per fuggire, prima che i nemici capissero che si trattava di un trucco.

Infatti non ci volle molto perché capissero, la fiamma illusoria non poteva durare a lungo, e ben presto cominciarono a non aver paura e ad avvicinarsi di nuovo al gruppo; inoltre anche dal terreno ora stavano cominciando a spuntare mani che tentavano di afferrarli ai piedi, dovevano fuggire via e in fretta.

Cercarono dunque di riguadagnare la scala, mentre gli Scheletri si riprendevano sicuri e degli Zombie uscivano dal terreno. L’aria fuori dalla cripta era finalmente respirabile e pulita, Paimon osservando il teschio vide che aveva un occhiello sul capo, la catena continuava a cigolare e dalla cripta i rumori poco rassicuranti aumentavano, bisognava far presto.

Misero in fretta il teschio alla catena, pareva esser l’unica via d’uscita: aprire il cancello per poter fuggire, prima che Scheletri e Zombie li raggiungessero. Infatti, fortunatamente, appena il teschio fu agganciato alla catena il cancello, cigolando, si aprì lentamente e la compagnia corse verso l’uscita, mentre alcuni Angeli li proteggevano brandendo le spade.

Quando tutti lo ebbero passato si chiuse alle loro spalle lasciando oltre le creature nemiche: il Sentiero della Morte era terminato, davanti a loro un altro sentiero in apparenza più tranquillo si aprì ed apparve di nuovo la Shekhinà. Ella li salutò, contenta di vederli sani e salvi, e disse: «Bene siete giunti alla Montagna dell’Anima. Quello che avete davanti è il Sentiero della Giustizia, così nominato perché l’Arcano che lo contraddistingue nei tarocchi è la Giustizia. Piccolo Hobbit, forse la cosa più brutta che può capitarvi è quella di dover fare i conti con voi stessi, ma di più non posso dirvi, solo questo: dentro ognuno di noi si cela la propria parte oscura e rendere giustizia a noi stessi è la cosa più difficile da fare. Ora andate ci rivedremo presto.»

La Shekhinà scomparve ed il gruppo si rimise in marcia lungo il nuovo sentiero, ma ben presto si trovarono davanti a delle figure, che poi capirono essere i doppi di se stessi, ognuno di loro aveva la propria copia identica davanti agli occhi. Queste copie si mischiarono agli originali, creando non poca confusione tra i membri della compagnia.

Quasi tutti fecero dei gesti ritmici per vedere se il doppio faceva altrettanto; la Fata Sixie si chiese se i doppi fossero completamente uguali a loro, oppure contrari, come spesso accade guardandosi nello specchio. Ogni doppio cominciò a dire che era lui il vero ed unico, ma anche i veri dicevano la stessa cosa; cominciarono ad urlare tra loro e la confusione che si creò era grande… i due Paimon si studiavano silenti, poi, improvvisamente, cominciarono a prendersi a schiaffi.

L’Arcangelo Halley cercò di dividerli, ma arrivò la Shekhinà che si mise di mezzo e disse: «Amici, ora il vostro compito è di capire quale dei due è il vero Paimon. Badate bene, se indovinerete le copie scompariranno, ma se sbaglierete la copia di Paimon vi condurrà alla morte. La battaglia più difficile è quella contro se stessi.»

La Shekhinà aveva in una mano una corona di spighe di grano e, nell’altra, una Spada con l’elsa a forma di bilancia. «Il vero Paimon, e solo lui, può toccare questi due oggetti. Il vostro compito è dirmi a quale dei due volete che io li doni. Allora, valenti compagni, chi dei due è il vero Paimon?» La voce della Shekhinà era ora seria e ferma.

L’Arcangelo ci pensò su un attimo, poi afferrò il Paimon che stava pulendosi le mani sulla veste della Shekhinà, ricordandosi che nella cripta aveva espletato un “bisognino”. Gli calò i pantaloni e disse di dare a lui gli oggetti, perché quello era il vero Paimon. La Shekhinà dopo aver udito le parole dell’Arcangelo, consegnò la Spada a Paimon.

I presenti guardavano speranzosi la scena e la spada s’illuminò, i cloni sparirono e tutti esultarono di gioia. Era il Paimon giusto, anche se in quel momento era mortificato dalla vergogna, ma non c’era altro modo per sapere quale dei due fosse il vero se non quello.

La Shekhinà disse poi loro di proseguire il cammino e che presto si sarebbero rincontrati. Si misero di nuovo in marcia lungo il sentiero, portando sempre con loro la Spada, e presto giunsero di fronte al Tempio del Potere. Paimon camminava davanti a tutti brandendo la Spada e portando la corona di spighe in testa, come fosse un imperatore. Davanti al tempio notarono due altari, uno aveva scolpita l’effige di una Spada e l’altro aveva sopra un trono in miniatura.

I compagni si guardarono, poi guardarono Paimon e ciò che aveva con sé. Gli dissero che l’unica cosa da provare era posare la Spada su un altare e sedersi con la corona in testa sul piccolo trono che, tra l’altro, era della giusta misura.

Paimon era titubante, non sapeva se ne fosse degno, ma la Fata Sixie lo rassicurò, dicendogli che se la Shekhinà aveva scelto lui per quei due oggetti sicuramente lo riteneva degno di tale prova, e infatti la Spada s’incastonò perfettamente nell’effige riportata sull’altare, mentre Paimon sedeva egregiamente sul trono dell’altro.

Subito un cancello d’oro apparve aperto davanti a loro, decisero prontamente di entrarvi. Dietro il cancello, un anziano vestito regalmente aspettava il gruppo, li guardò un attimo e poi parlò: «Benvenuti nell’Arcano della Forza, di cui io sono il Sire. Cosa vi ha spinto fin qui?»

L’Arcangelo rispose che un cuore puro e coraggioso li aveva portati lì, spingendo l’Hobbit in avanti verso il Re. Paimon disse che la Shekhinà li aveva fatti giungere lì attraverso il cammino dell’Albero della Vita, poi gli mostrò la Spada. Il Re disse che sarebbe stato lieto di farli passare il Sentiero della Forza, solo se in cambio gli avessero dato dell’oro e del miele.

«L’oro dovreste già averlo» disse loro. «Il miele, invece, lo troverete dietro quella collina.» Indicò loro una collina in fondo al sentiero, ma aggiunse sospirando: «Per il miele, ahimé… un terribile Drago è a guardia degli alveari. A noi di questo regno non è concesso avvicinarci, pochi sono stati i coraggiosi che hanno intrapreso la sfida, ma sono tutti periti.»

L’ora però era tarda, tutti erano molto stanchi e provati per le avventure appena trascorse, chiesero dunque al Re se era disposto ad ospitarli per la notte, e la mattina dopo avrebbero affrontato il Drago per ottenere il tanto sospirato miele. Il Re li condusse al suo castello e mostrò loro le stanze dove avrebbero potuto trovare riposo.

Dormirono tutto il giorno e si svegliarono che era già notte. Si ricordarono di essere nel castello del Re, che si trovava lungo il Sentiero della Forza; il cielo era sereno anche se non vi era la luna ad illuminarlo, ma presto il sole sarebbe nuovamente sorto. Il Re venne loro incontro per salutarli, li aspettava una grande impresa.

Li accompagnò fino all’uscita del castello e poi indicò loro la strada, mostrò loro una collina non molto distante e disse che lì era pieno di miele, ma che a loro non era concesso prenderlo. Augurò loro buona fortuna e li guardò allontanarsi, sperando di vederli tornare presto indietro vincenti.

Il gruppo si avviò non molto sereno, a dire il vero, soprattutto l’Hobbit era alquanto preoccupato. L’Arcangelo Halley diede disposizioni ai propri Angeli su come disporsi e su come attaccare il Drago una volta trovato, si raccomandò di mettersi tutti contro-sole una volta colpito, per evitare che il drago potesse soffiare loro le sue fiamme. Andavano tutti di pari passo guardandosi intorno, le colline erano molto belle; mentre stava per albeggiare, il cielo si tingeva di vari colori e l’aria era ricca del profumo di fiori e di propoli.

Arrivati davanti alla collina non notarono nulla di strano, se non un incessante ronzio, quello delle api; ascoltando con maggior attenzione, però, sentirono anche un respiro regolare ma affannoso. Ogni tanto anche qualche sbuffo si faceva sentire, capirono che oltre alle api avevano trovato anche il Drago che faceva loro buona guardia, infatti avanzando ancora trovarono un drago addormentato, circondato da alberi carichi d’alveari, con una moltitudine d’api laboriose intorno a lui.

Improvvisamente l’Arcangelo Halley pronunciò queste parole: «HSEPFIH IH QUVIPVIH ENODUH QISNIVVODOH FOH QUSVESIH EH VISNOPIH MEH PUTVSEH NOTTOUPIH PUOH DKIH FOH ESTHEMVH IFH EQUQKOTH TOENUH GSEVIMMOH VOH UPUSISINUH TIH DOH EOAVISEOH.» Che, tradotte dall’antico Leggendrico, suonavano così: «Grande e potente amico, permettici di portare a termine la nostra missione. Noi che di Arsgalt ed Apophis siamo fratelli, ti onoreremo se ci aiuterai.»

Ma il Drago spostò appena la coda, continuando a sonnecchiare. Si svegliò poco dopo, infastidito dalla luce del sole che sorgeva, ed alzò la testa verso i presenti.

L’Arcangelo pronunciò ancora queste parole: «TWIHMOEH UKH QUVIPVIH TOHPUSIH IH METDOEH DKIH RAITVOH ANOMOH ITTISOH DUNQOEPUH DUMH VAUH QISNITTUH MEH MUSUH UQISEH.» Che tradotte volevano dire: «Sveglia, o potente Signore, e lascia che questi umili esseri compiano col tuo permesso la loro opera.»

Ma il Drago cominciò a guardare i presenti in modo truce e sbuffando, quando, improvvisamente, come attirato da qualcosa, il suo sguardo si posò sulla Fata… la fissava senza sbuffare.

La Fata si fece coraggio e si avvicinò a lui, vibrando le ali rosse e piegando la testa di lato, sorridendogli. Il Drago cominciò ad avanzare verso di lei, facendo rimbombare tutto ad ogni passo, e le si chinò di fronte, guardando la luce che emanava, incuriosito.

Mentre il Drago era distratto dalla Fata, Paimon si avvicinò ad uno degli alveari per prendere il miele. Sixie continuava a volare verso il Drago, facendo brillare la sua aura rossa, intensa e calda, mentre questi pareva avere occhi solo per lei, non guardando più gli altri presenti. La Fata si alzò in volo, danzando e muovendosi nell’aria vibrava le ali attirando dietro di sé il Drago, che la seguì, completamente rapito dalla sua bellezza e leggiadria.

Intanto Paimon si era chinato su un alveare e stava soffiando con la cannula della pipa del fumo dentro per fare andare via le api, che si diressero veloci verso Sixie ed il Drago, e questi, credendo che la Fata fosse una cucciola di Drago, allungò una zampa per ghermirla. Venne però attirato dal fumo e dalle api, si voltò verso Paimon, ma la Fata cercò nuovamente di attirare la sua attenzione, volando più veloce, aumentando la luminosità della sua aura, e facendo brillare tante scintille rosse intorno a lui.

Il Drago guardava Paimon ma, attirato ancora dalla Fata, si volse verso di lei e, allungando la lingua, cercò di afferrarla, cosicché l’Hobbit riuscì a prendersi un alveare. La Fata cominciava a preoccuparsi e a temere per la sua vita, ma il Drago la guardava bonariamente e con occhi innamorati.

Improvvisamente l’Arcangelo spiccò il volo, portando via la Fata dalle fauci del Drago, anche se innamorato, erano pur sempre fauci, quindi meglio non rischiare visto che la missione era stata portata a termine. Ma il Drago, vedendo allontanarsi la Fata, si arrabbiò moltissimo e cominciò a sbuffare, emettendo lingue di fuoco dalle sue nari; gli alberi ardevano intorno a lui mentre il soffio della creatura brillava alto nel cielo. Gli Angeli si posero alla carica brandendo le spade verso il Drago, egli li inseguiva, volando sempre più in alto, verso il sole, seguito a sua volta dall’Arcangelo. Tutti fuggivano veloci verso il tempio, a parte Paimon, che si stava ingozzando di miele e venne prontamente redarguito. Il Drago stanco e sconsolato, vedendo l’Arcangelo e la sua spada, si ritirò. Il gruppo fece ritorno al castello, dove li attendeva il Re, che fu molto contento di vedere che erano riusciti nella loro opera.

«Consegnatemi ciò che vi ho chiesto, piccolo uomo, e non giacete sugli allori. Il vostro cammino non è finito. State attraversando le Sephirot ed avete ancora dei sentieri prima di giungere alla fine. Il prossimo Sentiero è quello del Mare ed ora datemi l’oro.» Avuto ciò che voleva, disse che li avrebbe condotti al Sentiero del Mare; una leggera nebbiolina li avvolse, udivano confuse le parole del re che augurava loro buona fortuna e, quando questa scomparve, davanti a loro apparve un nuovo sentiero.

Alla fine di questo la Shekhinà apparve loro, radiosa nella sua bellezza.

«Benvenuti, avventurieri, siete giunti al Sentiero dell’Imperatore. Il vostro viaggio è quasi al termine, ma non concluso. Davanti a voi adesso c’è il Cancello dell’Abbondanza» disse indicando un cancello alle sue spalle. «E per attraversarlo dovrete possedere la bellezza, ma non quella del corpo, quella la possono avere in molti, quella del corpo si sa, prima o poi svanisce; resta invece sempre la bellezza dell’intelligenza. Per poter proseguire dovrete bagnarvi in due fontane, quella della Bellezza e quella dell’Intelligenza, ma non è così facile immergersi in esse, ambedue sono protette. Tutti questi sentieri avrebbero dovuto farvi riflettere e capire che per ogni cosa c’è sempre una spiegazione a tempo debito. La Fontana della Bellezza è protetta da ciò che di meno bello la natura ha creato, ragni orribili alla vista, ma molto intelligenti, mentre la Fontana dell’Intelligenza è protetta da serpenti. Per proseguire il vostro cammino dovrete bagnarvi in entrambe le fontane, io vi aspetterò più avanti, ho fiducia in voi, coraggiosi avventurieri.»

La compagnia si fece coraggio e continuò il suo cammino alla ricerca delle due fontane; mentre avanzava, le nuvole coprirono il sole, ormai la giornata volgeva al termine. Poco più avanti scorsero una sagoma, pareva essere quella di una fontana e tutto intorno ad essa un frenetico movimento di grossi corpi; si avvicinarono di più e capirono che erano i ragni di cui aveva parlato la Shekhinà.

Erano ragni giganti, avevano lunghe zampe e si muovevano freneticamente, mentre sembrava stessero costruendo una ragnatela. Li guardavano attenti e anche un poco disgustati, parevano poco infastiditi dalla scarsa luce, anzi, più era buio e meglio lavoravano.

Pensarono allora di provare ad illuminarsi per vedere se la luce da loro prodotta potesse in qualche modo allontanarli, ed infatti la forte luce emanata dagli Angeli e dalla Fata riuscì a farli allontanare, così ne approfittarono per bagnarsi a turno nella fontana.

Quando tutti si furono bagnati la fontana ed i ragni scomparvero all’istante, ora dovevano trovare l’altra; poco dopo scorsero la seconda fontana, anche questa circondata da un movimento frenetico, questa volta doveva trattarsi dei serpenti. Erano molto dubbiosi sul da farsi, non sapevano come liberarsi di quelle infide creature.

L’Angelo Adya provò ad attaccare un serpente che purtroppo la morse, ed anche altri serpenti disturbati cominciarono a dirigersi verso i presenti. L’Angelo Novecento suggerì di fare tanto, tantissimo rumore, per spaventarli e farli fuggire. Il rumore li allontanò appena, e subito essi ne approfittarono per bagnarsi dentro la fontana. La fontana anche stavolta scomparve appena tutti si furono bagnati e, al suo posto, apparve la Shekhinà.

«Bene, avete superato anche questa prova, anche se è stata più questione di fortuna che d’intelligenza. Ora riposatevi, siete arrivati nel Giardino dell’Abbondanza, qui nessuno vi disturberà ed io veglierò su di voi, affinché facciate sogni tranquilli. Quando domani vi sveglierete sarete pronti per l’ultima parte del vostro cammino.» Detto questo si addormentarono tutti esausti, il mattino sarebbe arrivato presto e con quello la fine della loro avventura.

Quando si destarono l’Hobbit Paimon sentì il bisogno di riflettere: erano giunti all’ultima parte del loro lungo viaggio, attraverso le Sephirot dell’Albero della Vita, e qualcosa quella sera sarebbe successo affinché la Spada che con cura avevano portato fino a quel momento con loro, venisse Benedetta dall’Albero della Vita. Mentre Paimon comunicava i suoi pensieri ai presenti, una luce apparve improvvisa e, a poco a poco, si delineò la figura della Shekhinà che li aveva fino a quel momento accompagnati lungo il loro difficile cammino.

«Ben trovati, avventurieri. Siete giunti ormai alla fine del Sacro Sentiero; la Spada è stata portata qui con onore e coraggio. Vi manca ancora l’ultimo sentiero da percorrere, la Sephira Chockmah, la Valle Segreta. Questo sentiero è rappresentato dall’Arcano senza numero, il Matto. Affrontate quest’ultimo viaggio e state attenti, perché a volte non tutto è come noi lo vediamo.» Detto ciò scomparve, lasciando la compagnia all’ultimo cammino nelle Sephirot.

Mentre il sentiero veniva percorso, un’ombra si delineava mano a mano che andavano avanti. L’ombra restava immobile, rivelandosi lentamente per quello che era: un grosso masso posto al centro del sentiero. Il masso occupava tutta la larghezza del camminamento, era molto alto e non permetteva alla compagnia di avanzare in alcun modo.

Tutti si fermarono ad osservarlo, per capire come potevano fare per passare, la luce della notte si rifletteva sul centro del masso, dove qualcosa di metallico era conficcato; l’Angelo Novecento volò in alto, per poter meglio guardare l’oggetto, scoprendo che in realtà era una serratura. Gli altri attendevano che Novecento dicesse loro cosa aveva scorto e se avesse capito come fare a passare; intanto si guardavano intorno, il sentiero era chiuso dal lato destro, mentre sul lato sinistro c’era una grotta buia.

Quando Novecento disse loro che c’era solo una serratura, convennero che l’unica cosa da fare era entrare nella grotta; egli dispose che tutti gli Angeli s’illuminassero e che facessero cerchio intorno agli Hobbit per proteggerli. L’entrata della grotta era molto ampia e l’illuminazione degli Angeli rivelò un’iscrizione: “Qui le armi non serviranno, solo il potere della mente è concesso, le armi sono un gran danno, e rendono l’uomo ossesso”.

Dopo averla letta rinfoderarono le spade e proseguirono ancora più guardinghi di prima. All’interno della grotta notarono che si respirava un forte odore di ferro, ipotizzando che potesse trattarsi di una miniera.

La grotta diventava sempre più ampia, man mano che procedevano, era piena di cunicoli che arrivavano molto in profondità nelle viscere della terra. Il cunicolo che il gruppo stava percorrendo finì in un’ampia sala ovale, in questa strane figure sembravano attendere l’arrivo della compagnia. In fondo alla sala un trono, su questo stava seduta una persona, circondata da altre figure; gli Angeli e gli Hobbit li salutarono timidamente, aspettando che qualcuno rivolgesse loro la parola.

La figura sul trono li guardò uno ad uno e poi soffermò lo sguardo ghignante su Paimon, il suo sorriso non era per niente amichevole quando iniziò a parlare. «Siete arrivati in un posto in cui non sareste dovuti arrivare, stranieri, ora dovete pagare per il vostro passaggio.» E fissando l’Hobbit aggiunse: «Ed egli sarebbe colui a cui è stata affidata la Sacra Spada?»

Alcuni Angeli misero istintivamente la mano sull’elsa della spada, dicendo anche di non farsi ingannare dall’aspetto, perché era molto più coraggioso di quel che poteva sembrare un piccolo Hobbit. La figura guardò l’Angelo Adya e le disse che lì le armi non sarebbero servite, che erano giunti nel Regno del Matto e solo l’immaginazione aveva il potere di cambiare le cose. Paimon lì per lì svenne dalla paura, ma si riprese subito, aiutato dagli Hobbit vicino a lui.

Un Angelo disse che purtroppo erano stati costretti a passare da lì, altrimenti avrebbero volentieri scelto altre strade se ve ne fossero state; la figura rispose che nessuno li aveva obbligati e che gli intrusi erano loro, in fondo. A queste piccole frasi si alternavano lunghe pause di silenzio, mentre gli sguardi passavano veloci da un volto all’altro.

Ad un certo punto chiesero cosa dovessero pagare per poter passare, la nera figura si alzò e disse che non sarebbero passati se non avessero prima pagato il Matto. «E questo è uno di voi» aggiunse. «Mi chiamano in mille modi, il Matto, l’Innominabile, la Paura, la Solitudine, la Pazzia, un nome per me vale l’altro.»

Decisero che solo l’Hobbit poteva passare, in fondo era lui che aveva la Spada e a lui toccava portare a termine la missione affidatagli. La nera figura fece segno all’Hobbit di avvicinarsi a lui e indicò ai suoi scagnozzi di bloccare il passaggio agli altri.

«Vi ripeto, le vostre armi non servono e neppure la vostra luce. Se volete impazzire i miei scagnozzi non hanno che da toccarvi la fronte. È molto divertente guardare qualcuno che diventa pazzo, non avete mai provato? Vedete, i miei compagni sono stati talmente coraggiosi da avermi sfidato ed ora sono qui a farmi compagnia. È stato molto, molto divertente sentire le loro urla mentre impazzivano e, a dire il vero, è da molto che non sentiamo più qualcuno urlare.»

Paimon, forte del coraggio trasmessogli dai suoi compagni, si avvicinò sempre di più al Matto, ma questi allungò una mano verso di lui e gli toccò la fronte; una nera aura coprì all’istante Paimon, il suo volto divenne livido e gli occhi si fecero vacui, intorno a lui le risate impazzite delle figure echeggiavano, rimbombando nella sala e creando un forte eco.

Paimon cominciò ad urlare che la grotta era sua e a fare gesti come per mandare via i suoi compagni: «Andate via! È mia questa grotta!»

L’Hobbit si contorceva a terra mentre continuava ad urlare che la grotta era sua, l’aura nera intorno a lui si faceva sempre più spessa, e gli Angeli si concentrarono su loro stessi, sulla luce che portavano, ma vennero distolti dalla voce della nera figura che disse loro che ora potevano passare, poiché il pegno era stato pagato. Gli Angeli non volevano andarsene senza Paimon, e dissero alla figura che lo avrebbero portato con loro.

«Prendete la vostra Spada, a me non serve. Qui siamo in ottima compagnia» disse indicando Paimon che ora era accanto a lui. «Lui resta con me, non abbandonerà mai più questo regno.» L’Angelo Novecento chiese alla figura cosa volesse per lasciarlo andare, egli rispose che voleva la sua follia e lui accettò di sostituirsi a Paimon.

«O ve ne andate tutti lasciando qui Paimon, o resterete tutti qui con me; in fondo avete delle belle voci, sarete un’ottima compagnia» decretò ghignando. Novecento si avvicinò di più alla nera figura e gli prese le mani, gli disse che erano molto belle, poi, velocemente, ne prese una e la spinse con forza contro la sua stessa testa, urlandogli che matto sarebbe divenuto lui, del tutto e subito.

La figura cominciò a ridere furiosamente, mentre gli altri guardavano straniti ed incuriositi dal gesto dell’Angelo. Le altre figure andarono dietro al loro padrone e cominciarono a ridere, ridevano senza fermarsi e senza più badare alla compagnia.

Era il momento buono, presero Paimon di peso e lo portarono via proseguendo di corsa il loro cammino e lasciandosi dietro le risate folli di quelle figure. Gli Angeli iniziarono a parlare a Paimon di torte, di donne e dolcetti continuamente finché lui sembrò ascoltarli.

Finalmente furono fuori dalla grotta e lì una forte luce li investì, era la Shekhinà che, allungando una mano, toccò la fronte di Paimon, il quale poco a poco si riprese e cominciò di nuovo a respirare regolarmente, mentre i suoi occhi tornarono normali ed anche il colore della sua pelle. Poi disse loro: «Ricordate cosa vi dissi? La realtà non è sempre come la vediamo ed io ho visto Paimon, normale come sempre, come è sempre stato, il potere della luna ha fatto il resto. La Spada che avete con voi ora è stata benedetta, ha fatto tutto il cammino dell’Albero della Vita ed è pronta per essere portata dove dev’essere condotta.» Sorrideva felice alla compagnia, mentre pronunciava queste parole.

In seguito continuò: «Aprite la porta della roccia con la chiave che avete preso nella grotta, lì troverete il Tempio più Intimo, ivi il vostro viaggio avrà fine. Il mio compito è finito ora, non vi dimenticherò amici miei, e che la grande madre luna guidi sempre i vostri passi.»

Andarono tutti verso il masso, l’Angelo Novecento aprì la porta con la chiave rivelando un tempio d’infinita bellezza e soave dolcezza, al tuo interno regnava la pace più profonda.

Quando tutti furono entrati, una luce calda li avvolse e li trasportò a Lot, alla Rocca, dalla quale erano partiti. Si salutarono e tornarono ognuno alle proprie case, lieti ed arricchiti nell’animo da una nuova esperienza.

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