Leggende di Lot

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Data di pubblicazione: 12 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

✾ Fata delle Nebbie ✾

Dall’esterno la taverna appariva come una bassa costruzione in pietra, dalle finestrelle costantemente illuminate che brillavano come un faro nelle notti senza luna, quando gli animali notturni danzavano nelle foreste, protetti dall’oscurità.

Una volta varcata la soglia il bagliore delle candele e delle fiamme che ardevano nel camino abbagliava la vista degli avventori, rinfrancati dal vociare festoso e dal lieve, ma persistente aroma di sidro che vi si respirava. Ai tavoli in legno massiccio, rozzamente intagliati, anche quella sera sedevano molte persone, perse nei loro discorsi… un argomento ricorrente di quel febbraio nebbioso era la leggenda della Fata di MaidenCastle… che passava di bocca in bocca, acquisendo ogni volta nuovi particolari.

«Voi, oste, conoscete questa storia?» chiese ad alta voce uno straniero. «Più volte ho sentito vociferare di questa Fata, la sua fama ha varcato i confini del Granducato, ed è giunta sino alla mia terra. La brama di sapere mi ha portato qui» aggiunse, alzando il boccale colmo di birra, in attesa di un racconto dettagliato che non tardò.

L’oste si schiarì la voce ed esordì, ben lieto di attirare nuovi avventori nella sua taverna e di avere il suo piccolo momento di gloria: «Un tempo, non molto lontano, si dice che vivesse una meravigliosa Fata nel castello abbarbicato su un monte, MaidenCastle, appunto.

La fama della sua leggiadra bellezza aveva varcato mari e monti e richiamato indomiti cavalieri, pronti a sfidare pericoli di ogni sorta pur di vincere la sua mano, ma il cuore della Fata non batteva per nessuno di loro. Cortese ma risoluta, declinava le profferte amorose con un sorriso vagamente beffardo.

Una notte, risvegliata dal sinistro richiamo della civetta, la Fata decise di uscire, richiamata da un impulso che la attirò verso la foresta, i rami intricati e le erbe incolte resero difficile il suo cammino, ma la luce argentea della luna parve guidarla sino alla radura, dove la vegetazione si faceva meno fitta. Qui si fermò, guardandosi intorno guardinga. I suoi occhi, come quelli di un felino, erano dilatati nello sforzo di scorgere le ombre della notte e di dar loro forma tangibile, finché, improvvisamente, un frusciar di fronde la scosse.

La Fata si nascose dietro un arbusto e trattenne il fiato, nella notte avanzava uno splendido destriero che portava il peso inerte di un cavaliere, abbandonato nel sonno o, forse, nella morte. L’animale percepì la presenza della Fata, che si avvicinò, per nulla intimorita, e gli sussurrò qualcosa. In tutta risposta il cavallo, docile, s’inginocchiò e il corpo del cavaliere, apparentemente senza vita, cadde grave al suolo. La Fata lo guardò, ed il suo gelido cuore si sciolse alla vista di quelle fattezze virili ma armoniose.

Raccogliendo tutte le sue forze, cercò di metterlo seduto e restò così, immobile, con il cavaliere tra le braccia, per molte ore, finché il sole non sorse ed inondò la radura con il suo tiepido, generoso sorriso. Alla luce del giorno il cavaliere aprì gli occhi, enorme fu lo stupore nel vedere accanto a sé lo splendido volto della Fata e nel cogliere quello sguardo già traboccante d’amore. Bastò loro una fuggevole occhiata per intendersi, il cavaliere cominciò a parlare di sé, si presentò e chiese lumi sulla terra in cui si trovava.

La Fata, ben lieta di soddisfare la sua sete di conoscenza, raccontò della fiera bellezza di quelle contrade e lo invitò al suo castello. Passarono così i giorni ed i mesi. Ben presto, l’attrazione reciproca si palesò ed arse l’incendio della passione. Incuranti dello scorrere del tempo e delle stagioni, i due amanti vivevano la loro stagione d’ebrezza a MaidenCastle, ma venne poi un giorno in cui la Fata colse lo sguardo inquieto del cavaliere, che scrutava oltre la valle, sino a spaziare nel lembo di mare laggiù, all’orizzonte.

Inquieta, si avvicinò e fissò il suo sguardo ceruleo in quello dell’amato, ed ebbe così la certezza dei suoi timori. Il desiderio di compiere gesta eroiche si era riaffacciato nell’animo dell’amante che, desolato ma risoluto, lasciò il castello e lasciò lei al suo dolore. Il tempo passava, ma la Fata non riusciva a capacitarsi e ad accettare di essere stata abbandonata, il suo cuore tornò a chiudersi, il suo sguardo gelido si posava distrattamente su tutti coloro che la circondavano, suo unico desiderio sembrava ora la solitudine.

Un giorno, un menestrello cortese giunse a MaidenCastle e cantò le gesta dell’eroe che, dopo lungo peregrinare, aveva finalmente trovato la felicità domestica e sposato la figlia del suo signore. La Fata ebbe l’assoluta certezza che si trattasse proprio di lui, troppi dettagli sembravano confermare questa verità, ed il suo dolore si fece sempre più acuto, sino a trasformarsi in sordida rabbia.

Ogni notte, quando il sonno le era negato, pensava alla vendetta o al modo di ritrovarlo, giacché un umano si era preso gioco di lei ed aveva giocato con il suo cuore. Quelle notti senza luna erano un vero tormento, si aggirava solitaria e scarmigliata nelle fredde stanze del maniero, facendo risuonare il suo lamento, quello dell’innamorata delusa.

Alla luce del sole, lo stesso dolore le sembrava ancora più insopportabile, la bellezza del luogo intollerabile e la felicità altrui disgustosamente melensa poiché a lei era negata. Fu così che, una notte ventosa, si avventurò sino alla sommità del castello, lo strapiombo che si apriva ai suoi piedi reso ancora più angosciante dal buio. Fu un attimo, un piccolo passo nel vuoto… il suo corpo, dimentico dell’arte del volo, ricadde per qualche metro, ma improvvisamente accadde qualcosa di inspiegabile: la Fata si trasformò e divenne falco, e volò lontano dal luogo che l’aveva vista trepida amante.

Volò per miglia e miglia, varcando mari e monti, finché non si fermò sul torrione di un palazzo. Nel cortile sottostante passeggiava, pensieroso, un cavaliere. Improvvisamente alzò lo sguardo e vide il falco, maestoso ed irriverente nella sua bellezza. Senza ragione alcuna, ma per il bieco desiderio di possesso, armò la sua balestra, la puntò verso l’animale e lo colpì. Il falco cadde lanciando urla di dolore ma, mentre si avvicinava al suolo, si trasformò gradualmente, sino ad assumere le sembianze originarie, e terminò il suo volo con la bellezza di un tempo, sfracellandosi al suolo.

Attonito, il cavaliere non poté credere all’assurdo miracolo e alla crudeltà del suo gesto, aveva ucciso non il nobile falco, ma la meravigliosa creatura per la quale il suo cuore aveva spasimato. Il suo pianto lo straziò e il rimorso si fece greve fardello, insopportabile compagno di vita… la Fata lo aveva visto soffrire, ed aveva avuto la sua vendetta.»

L’oste si schiarì la voce, bevve un sorso di birra e riprese: «Si narra che, dopo la morte del falco, una fittissima nebbia fosse caduta su quella terra, la nebbia era così impenetrabile da non permettere il minimo movimento, se non con gravi rischi. Tutto il paese ricadde in una spaventosa immobilità che sapeva di morte e terrore, nelle mattine d’inverno sono in molti a giurare di aver sentito una splendida voce femminile riecheggiare nell’aria, dapprima cristallina e piena di gioia, ma poi cupo lamento… la nebbia impauriva gli umani ma cullava la Fata che, in essa, volteggiava sicura, facendo risuonare nell’aria una sinistra risata…»

Lo straniero posò il boccale, ormai vuoto, sul bancone. Poi, come sospinto da un inspiegabile impulso, si voltò verso l’uscio, appena dischiuso… Una fitta nebbia era entrata in taverna, ed avvolgeva come un morbido manto la splendida sagoma di una creatura fatata.

Riflessi violacei si diffusero nell’aria, finché la nebbia non si dissolse. Fu allora che lo straniero si rivolse all’oste con un sussurro: «Dunque… la Fata delle Nebbie non è una diceria…»

E l’oste, in tutta risposta, allargando le braccia gli rispose con aria bonaria: «Benvenuto nel Granducato di Lot, Messere…»Data la lunghezza dell’articolo, il post è stato diviso in più pagine:

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