Memorie di una Fata che si trasformava in Lupo

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Data di pubblicazione: 12 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

… Sogno di una Fata …

Qualcuno bussò alla porta. La fata fu lesta, nascosta dietro alla colonna spiava il nuovo venuto. Stringeva la spada, guardava da ogni parte, cercava qualcosa. Sciolse i capelli nel frattempo, gli occhi brillavano di luce innaturale.

E poi lo riconobbe, era l’uomo. Com’era entrato? Ricordava di avere preso le chiavi, di averlo avvelenato… Era fuggito, lo sapeva. Eppure credeva, sperava, desiderava con tutte le sue forze che avesse dimenticato… Ma lui era costante, troppo bramoso di rubarle il segreto.

Lo aveva amato un tempo. I lupi l’avvetirono, così come le altre creature, ed avevano ragione. Era un inganno, un usurpatore. E adesso era tornato.

Le vesti erano diverse, se ne avvide, anche il suo aspetto, più composto. Sembrava stanco, come da una corsa, ed il pavimento non rifletteva l’ombra. Si accasciò, improvviso. Un rivolo di saliva gli scivolò dalle labbra. Tra le mani stringeva un pugnale.

La fata si commosse, decise di uscire allo scoperto. Ancora una volta, il suo cuore stava cedendo. Un fioco chiarore riscaldò la stanza, seduta al suo fianco lo vide rinvenire.

Si abbracciarono finalmente e piansero insieme. Lei lo accarezzava piano, lui cantava vecchi incantesimi. Dove li aveva imparati? Stretti l’una all’altro uscirono fuori, nel giardino della fata. E contemplarono la luna.

Si baciarono quella notte, e lui raccontò del viaggio. Fantasmi crudeli lo avevano inseguito, spiriti malvagi pronti ad ucciderlo. Aveva combattuto, chiuso nel fosso, vinto tante guerre. Nel mare in tempesta, era sopravvissuto, ma gli rubarono l’ombra, condannandolo al buio. Lei lo avrebbe salvato.

E lei rise, di gioia. Bastava poca luce, una magia antica, levò il pugnale e vi soffiò attorno. Suoni di arpa ed innocui balletti, la fata danzò per lui. L’uomo la accarezzava, chiamandola per nome. Le promesse divennero reali, Medusa gettò la maschera, e i lupi morirono tutti. Si allontanarono, due anime in dissolvenza, l’amore aveva trionfato…

La fata sentì un sibilo e sussultò. Si era addormentata. Corse dentro casa, si guardò allo specchio. Dei serpenti sembrarono ridere…

… Spettri Antichi …

Quel giorno riposavo. Stanca dei sotterfugi, di tante malie, di troppe ed inverosimili battaglie. Guardavo i fiori e mi dibattevo, immersa nei profumi. Un labirinto e poi la tela, un altro sposo che venne incontro. Cambiai nome un tempo, la santissima restò inviolata.

È un destino già scritto, a volte. Guardiana del toro, moglie e sorella ingrata, poi tutto si congiunse, e divenni dea. Morii impiccata per risorgere. E così di nuovo. Rinvenni dal ricordo, o forse era solo un sogno. Vestita di sangue, ormai ero la fata, ma nacqui libera ed aspettavo il ritorno.

Intanto mi stirai, in preda all’incoscienza, e sciolsi le catene. Solo un anello, ma tanto bastava. I lupi correvano, li avevo ingannati, ma era troppo tardi. E bevvi uno sconosciuto, fino al midollo. Ed accesi un fuoco, per riscaldarmi. E chiamai gli spiriti, erano miei amici. Mi addormentai sfinita. Nessun possesso a distogliermi, il sonno era più forte, con la voglia di essere sfuggita. Da cosa?

Passarono le ore, la notte porta consiglio. Trovai un vestito al mio fianco ed una salamandra. La misi in tasca, sarebbe tornata utile. E danzai, stavolta per me stessa, ballai furiosa fino a non sentire più i polpacci. Poi accadde qualcosa, allora smisi. Dovevo rientrare.

Corsi tra i boschi, scovai la maschera ed Elane che la indossava. Volevo avvertirla, era un dono potente quello che avevo perduto, le streghe lo mettevano alla guerra.
Ne sembrò così attratta, come farle un torto…

Meglio lasciarla andare, un cavaliere le stava affianco. Avrebbe saputo che dire.
Voltai lo sguardo ad ovest, l’orco e la sua compagna ridevano. Mi videro e fecero un ghigno, mostrai loro i denti. Era presto per l’ennesimo scontro. Sempre più inquieta aspettavo un segno, non tardò ad arrivare.

La terra ebbe un sussulto, i rami caddero ai miei piedi, le bestie fuggirono. E lui si lamentava, stava affannando e scavava, per salvarsi. Lo stavano braccando.

Capii subito, il mio compagno era in pericolo. Lo guardai nutrirsi di vermi, ridotto ad un mucchio d’ossa, sperai di farmi ascoltare, ma non riusciva a sentire. Il viandante era smarrito, la sua schiavitù troppo forte.

È solo sete, quanto ne parlammo, ma gli incubi sono infami, si siedono sul petto ed assorbono l’anima. Conosco un incantesimo, cercai di sussurrarlo. E lui tornò ragazzo, appena un attimo, e i mostri lo abbandonarono. Era così stanco…

Un buco lo raccolse, tomba improvvisata per un cuore in frantumi, pareva morto. Calpestai le larve, nauseabondi insetti, e carezzai quel simulacro, una lacrima cadde. Chiamatela redenzione, ma sono la Storia in fondo.

Quanta vita gettata, mio caro amico, pensai sedendomi. Un mucchietto accanto, stava riposando. Sarebbe tornato grande da lì a poco.
Avrebbe dimenticato. Un gatto mi leccò la mano.

… Figlio della Fata …

La spiava, piangeva sulla tomba. Terreno disfatto, le vesti all’intorno ed una piuma stretta in pugno. Si addormentò la fata, un sonno che a lui non piaceva, di quelli senza sogni. Lo stava dimenticando? Seduto poco lontano fissava dispiaciuto, sempre quel dolore e la rassegnazione, protesa a difendere qualcuno.

Si chiedeva come mai, cosa fosse accaduto. Anche quando era vivo la sua amica era triste, eppure rideva spesso e giocava con lui. Le aveva insegnato a correre. E lei ricambiava il suo amore, ne era certo, mangiavano topi e dormivano avvinti, guardavano la luna e cacciavano lucertole. Poi successe e allora… tutto fu diverso.

Continuavano a cercarsi, ma solo a tratti. Il distacco, glielo avevano detto. Non ci si può far niente, la gente dimentica, pure le fate. Forse. Ma lei era diversa, questo lo sapeva. E pregava per lui, lo chiamava nei suoi incantesimi ed era impossibile resistere alla voce. Solo un ricordo adesso, eppure c’era. Ancora. Dunque, doveva proteggerla. Cercò di avvicinarsi, stava per raggiungerla, quando un gatto uscì graffiando. Da dove?


Era nero, si guardava attorno e mangiò un fiore. E leccò la mano… come si permetteva, come osava sfiorare sua madre? Gli si avventò contro, soffiando la sua rabbia e tutti i rancori. Era morto, furioso, in preda ai demoni. Geloso. L’altro poteva toccarla, per lui non era più tempo. E comprese finalmente, gridò con quanto fiato in gola, gridò il suo nome. Non avrebbero giocato, né pianto né sorriso. E i salti, le corse, ed ogni volo… Finiti.

Si arrese, ormai esausto, il nemico gli azzannava il collo, mostrò la pancia. E quello cedé, i denti ancora esposti. Lo guardò e si mise a sedere, la coda nervosa ma gli occhi meno cattivi. Sembrava distratto, si sa come fanno i gatti, e gli si accovacciò accanto. Cominciò a leccarlo piano, quasi timido, un piccolo morsetto amichevole ed un buffetto, che potesse capirne le intenzioni. Le fusa divennero assordanti, i due corpi si fusero insieme, la lotta mimava l’amore. E poi corsero, s’inseguirono, si fecero i dispetti. Ed uccisero farfalle.

«Sono un famiglio» gli confidò «mi chiamano Cagliostro, ma ho tanti nomi.» E spiegò la commissione, il suo mandato. Lo spirito di un uomo è cosa strana, prende forma quando è necessario, e lui era piccino. L’unico dono da offrire al padrone. Però, poteva cercare l’anello, e riportarlo in vita. Lo avrebbe aiutato?

Mangiò un insetto e stava zitto. Non riusciva a parlare. Perché aveva capito, a volte ne perdeva memoria. Guardò nello stagno e vide strisce. Evanescenti. L’altro aspettava, lui soffocava nel vomito. Bava gialla e pelo. Il figlio della fata era un gatto.

… Anelli di Fuoco …

Guardò l’elfo morire. Fu una morte lenta e dolorosa. Si accasciò per terra, e spasimava. Un rivolo dalla bocca aperta, labbra che un tempo lei aveva baciato, parole incomprensibili si udivano appena, la contrazione dei muscoli era spaventosa. Eppure, non volle aiutarlo.

Era il suo passato, un vecchio amico instabile, perché avrebbe dovuto? L’elfo spirò, così le sembrava, il suo viso ancora più cesellato di quando era in vita. Lo ricoprì appena, un fiore appassito offerto al cordoglio e si allontanò. La fata non pianse una lacrima.

Quella sera volò, in cerca di altri fantasmi, sentiva il buio trafiggerle il cuore, ma ormai era costretta. Anche i lupi la temevano, chinandosi al passaggio. Intimoriti dalla donna, correvano altrove, chiedendosi come raggiungerla. Era libera.

La fata si distese, lo stomaco già sazio. Si era nutrita nei vicoli del posto, qualcuno era sfuggito, ma in fondo poteva andare. Pensava alla condanna, rideva tra sé, del suo potere. E contava gli anelli, una catena spezzata che pareva un soffio. Leggera oltre ogni limite, sarebbe divenuta un gioiello. Ne era convinta. E cantava la fata, con voce cristallina. Ballava la sua danza, sembrava impazzita. E bella.

Omuncoli la spiavano da dietro agli angoli, le strade deserte nascondevano segreti. Ma quelli, feroci con i viandanti tanto da divorarne la mente e gli arti per poi intingere i cappelli nel sangue maledetto e girare vanitosi nelle lande più oscure, si erano invaghiti di lei. Toccandosi furiosi, ciarlavano contemporaneamente e si picchiavano. Piccoli ottusi, erano eccitati dalla strana visione, l’avrebbero aggredita volentieri, ma la melodia della fata era così leggera, così innocente, da farli sentire in colpa.

S’avvicinarono guardinghi, per osservarla meglio, ciascuno credeva d’essere il prescelto. Un richiamo d’amore, ecco cos’era la canzone, ed uno dietro l’altro, in fila come topolini, cadevano nella trappola. La fata covò il suo inganno, aprì le gambe, la bocca, le braccia e li divorò. Tutti.

Uno soltanto riuscì a fuggire, il più lesto. E scappava, scappava finché non inciampò su un ciottolo divelto messo lì per caso. L’omuncolo sentiva le ginocchia fremere, si era fratturato le ossa molli, mai successo in tutta la sua lunga vita. Cercò di rialzarsi ma il bruciore era tale che ricadde di scatto. Si voltò indietro e guardò meglio, non era un ciottolo bensì una mela.

La paura ebbe il sopravvento. Fece forza sulle mani, strisciò come meglio poteva, ma un respiro lo fermò. Un ansito pesante, un ringhio, un rumore di artigli. L’ultima cosa che vide furono due occhi gialli. La fata sorrise accarezzando il gatto, l’aveva avvertita. Fecero le fusa insieme, si leccarono un po’, giusto per lisciarsi il pelo. Era giunto il momento di lasciarsi, l’amico era tornato. In preda ad una follia temporanea, diceva il felino, aveva perduto il senno.

«Non sente il fuoco» spiegò la fata. «A volte accade. Conosci i doni della strega? Deve solo aver pazienza.» L’intuito è straordinario, il girovago ne era dotato, anche d’istinto. La fata ricordava. Raccolse la mela allora, controllò che l’interno fosse quello giusto e vi legò un filo. Nero.

Un miagolìo soddisfatto e il gatto fuggì via, dal suo padrone. La magia avrebbe funzionato. Lei ne conservava il seme. La fata riavvolse le catene, di nuovo pesanti. Un ultimo richiamo alla luna ed osservò l’anello. Si era dimenticata. Il sonno la vinse, i lupi si fecero attorno e qualcosa, che un tempo era stato figlio, le si addormentò affianco.

… La Seconda Battaglia …

La fata ripiegò la missiva, l’uomo le aveva scritto. Vicino ad una finestra pensava alle sue parole, un altro inganno da rivelare, eppure sospirava, quasi che fossero vere.

Si era svegliata presto, il sole ancora filtrava dai vetri, una luce che non sopportava bene. Le ricordava troppe cose, momenti passati di cui serbava un vago ricordo, giochi di bambini e forse una famiglia. La fata era sola, inconcepibile per lei altrimenti, ma serbava nostalgia per quei luoghi lontani ed ogni tanto vi tornava, in sogno.

A volte raccontava a qualcuno, mostrava i suoi segreti. Poi se ne pentiva e, qualora il caso, sibilava magie atte a far divenire immemori. Si vergognava delle sue debolezze, aveva amato un tempo, e quando credeva di essere pronta, si disfaceva del nuovo confidente. Stretta ad una coperta di lana cotta, sentiva freddo.

Durante la notte aveva mangiato, ma lo stomaco continuava a contrarsi. Cercò di ripensare a quello che era accaduto, le immagini confuse balenavano svelte, le pareva che un gatto… Poi sentì un suono, all’improvviso. Si guardò attorno, sporse le orecchie. Ancora più forte, un trillo distante come di campane. Gettò la lettera e si vestì, di corsa; abiti succinti per essere libera, la spada legata a un fianco, il borsello pieno di veleni. Elane la stava chiamando.

Chiamò a raccolta i lupi e sventrò un capretto. Pianse per lui, ma doveva farlo. Le viscere calde presero forma, alcune divorate dalle bestie fameliche (da giorni la fata le trascurava), altre mutarono in segnali. Globi di fuoco vorticarono senza sosta, sempre più veloci. Vi guardò dentro, quasi accecata. Ne toccò uno ferendosi alla mano, tentò di afferrarlo e quando ci riuscì, stringendo fino a scoppiare, la sfera tornò l’essere che aveva raccolto.

Ripose la salamandra nella borsa, la sua pelle un tosco rinomato, e si mise in marcia. La torre era ad ovest. Intese ridere in lontananza, i sensi acuiti dall’apprensione, volò più fretta che poteva e raggiunto il castello si arrampicò tra le guglie, stavolta nessun mostro cercò di fermarla.

Un silenzio innaturale l’accolse, tutto così strano. L’ultima battaglia era stata preceduta da scheletri sparsi a terra, persino lo scontro fu difficile. Ma pieno di rumori. Adesso, non udiva niente. Neanche un respiro. Cominciò a tremare. Possibile, pensava, che la sua amica se ne fosse andata? Cercò ovunque nel buio della camera, svuotò l’armadio ed ogni cassetto, si avvicinò al letto. La maschera la fissava ghignante.

Non era giusto, era un suo regalo. Doveva indossarla, proteggersi dal Male, Elane non poteva arrendersi. Toglierla voleva dire abbandonare la speranza. O la conoscenza. E la lotta, i buoni propositi, la fierezza che la contraddistingueva, dov’erano finiti?

La fata guardò meglio, accanto alla maschera due boccette: una conteneva sabbia, l’altra il simbolo della serenità. E allora capì, l’amica s’era immolata. Pura di cuore, i vecchi persecutori l’avevano convinta. La soluzione più facile, la vittima da scuoiare.

Estrasse la spada dunque, tagliò un frutto e cavò la polpa, il sangue prese a colare. Mandò giù il veleno ed arse, un rito marginale dei fasti più remoti. Infine svegliò la salamandra, la gettò contro il muro e passò le fiamme. E la vide Elane, in compagnia dell’orco. Circondata da donne e maghi sconosciuti, vestita di fiori, i polsi legati all’altare. Una gamba era tesa, i capelli coprivano il bel volto, la pelle di porcellana sbiadita dei colori. Gli occhi, soprattutto, erano impressionanti. Rassegnati.

La fata cacciò un urlo, nessuno parve sentirla. Vorticò furibonda tappandosi le orecchie, il ritmo cadenzato delle preghiere era troppo forte. Lanciò saette, ma i figuri oscillavano, ipnotizzati. Non riusciva a colpirli.

Soltanto Elane voltò la testa, uno sguardo supplice chiedeva di comprenderla. La fata corse il rischio, sparse il contenuto. La rena scivolò via, coprì la ragazza, un granello toccò l’orco. E lui svenne. La slegò che ancora dibatteva, le unghie spezzate dalle corde, l’effetto dell’incanto durava poco. Si abbracciarono strette, stanchissime, ma ancora insieme. Poi comprese, il desiderio stava avverandosi: l’orco sbadigliava, Elane gli sedé accanto. La fata lasciò quel mondo, non prima di aver scorto un sorriso. La maschera bevve lacrime.

… Demoni …

E venne il tempo del fratello. La fata lo vide combattere, così sua moglie.
Un demone antico colui che sottraeva animo ad entrambi, potente e misterioso come pochi altri. Eppure loro avevano qualcosa, una forza ben più grande di qualunque mostro tentacolare.

Si conobbero in tempi ormai remoti, la fata ricordava il connubio, le battaglie furono molte: perdite e timori si susseguivano, a volte sembrava un terremoto, poi ogni cosa tornava al suo posto. Nacque una figlia da quell’unione, creatura mancina donata dagli dèi, per farli sorridere. E così fu, lo scopo di una vita. Genitori come gli altri.

Impauriti che il demone volesse rapirla, gli sposi la coprivano, mascherandola da orfanella oppure da piccola maga. La fata sorrideva. Poi accade, che la guerra ebbe inizio. Un male riposto nella testa, in seguito nel petto della donna, divenne la ripicca del maledetto. Ma il fratello era un condottiero, la moglie un’ancella, estrassero la spada.

Incantesimi d’amore forse, o quanto gli umani chiamano fede, una mattina il demone fu sconfitto. Gli indovini lo avevano detto, stanca ma felice… Una larva moriva nel barattolo. Era bastato un alito di freddo.

Il demone succhiava aria intanto, non poteva respirare. Si dannava sbattendosi, rinchiuso nel suo antro, ancora battuto non si dava per vinto. La fata lo fissò a lungo, il fratello cullava un sogno e i segni furono chiari. La bambina era salva. La moglie dormiva, lei si allontanò. Quel giorno era serena. Chiamò i suoi lupi e corse via, l’indomani sarebbe tornata.

Dimentica del lieto evento già pensava ad una strage, doveva capire, vedere coi suoi occhi. Incontrò l’uomo, le aveva detto aspettami. Ma aveva mentito. Gli diede un bacio e lo abbracciò, rassegnata. Levò il coltello. I resti del pasto ancora nello stomaco, condusse il nuovo amante lontano. Conosceva l’uomo e quale migliore vendetta?

I lupi sbavavano, la fata era docile. Parlò di un inganno. E di una condanna. Si fece toccare la fata, le immagini dell’altro impresse nella mente. Berretti rossi schizzavano, soliti folletti impazziti, macchie di sangue alle pareti di una vecchia stanza, elfi che ridevano di gusto. I denti crescevano. Divenne lupa, nel modo a lei noto, cacciò un urlo. Spezzò quell’ultimo legame.

La svegliarono il giorno dopo, una piuma poco distante, le vesti stracciate. Pareva fosse invecchiata. La preda non comprese, tramortita da una bellezza sovrannaturale alzò le braccia. E lei bevve.

Data la lunghezza dell’articolo, il post è stato diviso in più pagine:

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