Si narra che, tanto tempo fa, sul monte Ineu vivevano dodici Fate. La cittadella in cui dimoravano, era tutta fatta d’ambra, le porte avevano stipiti d’oro e d’argento, ed erano adorne di magnifiche sculture.
Le Fate erano così belle, splendide, che chiunque le guardasse in volto, diventava folle d’amore e vagava sulle loro tracce, finché non era completamente fuori di sé.
La loro signora, la Principessa delle Fate, non aveva pari: la sua voce era così dolce ed incantevole, che i pastori, quando guidavano le greggi alle falde del monte e la udivano cantare nelle sere di luna piena, rimanevano ammaliati e non potevano più dormire la notte.
Da quelle parti abitava anche un cacciatore, giovane ma molto famoso, di nome Valer. Questi fece una scommessa con altri giovani, vantandosi d’essere in grado di rapire la Principessa delle Fate e prenderla in moglie.
Tuttavia, il suo restava un semplice desiderio, perché le fate erano custodite da due giganti, ciascuno dei quali aveva un solo occhio sulla fronte; erano brutti e deformi entrambi, ma abbastanza forti per spezzare il tronco d’un albero senza sforzarsi più del dovuto. Giorno e notte facevano la guardia intorno alla cittadella, a turno, e ciascun essere umano era minacciato di morte, qualora avesse osato accostarsi alle mura.
Le dodici Fate, ogni anno, rapivano dodici giovani uomini dai villaggi vicini, e danzavano con loro per tutta la notte, fino al primo canto del gallo. Allorché erano esauste per la danza, arrivavano i giganti, con l’ordine di scagliare i giovanotti oltre le mura della cittadella, affinché dei loro corpi restasse solamente qualche brandello. Alcuni, i più fortunati, ne uscivano storpi, con la spina dorsale rotta e variamente mutilati, tanto che suscitavano pietà e commiserazione.
Valer, visto come andavano le cose, decise di stare in agguato, fintanto che i giganti dal petto taurino, non fossero colpiti dalla punta avvelenata delle sue frecce. E questa occasione, non tardò a presentarsi.
Un giorno di calda estate, le Fate erano uscite per bagnarsi nelle acque del lago Lala, e i due giganti ricevettero l’ordine di vigilare fuori dalle mura della cittadella, così nessuno le avrebbe osservate, mentre giocavano e guazzavano nude nelle onde.
Valer non esitò. Si appressò alla cittadella più che poté, fermandosi ad ogni passo dietro tronchi di alberi per non farsi scorgere; non appena giunse fosse il momento opportuno, incoccò una freccia aguzza, con la punta d’acciaio, e saettò il gigante di destra nel bel mezzo del torace. Il dardo penetrò direttamente nel cuore, sicché il gigante, senza poter dire né hai né bai, rovinò a terra in un lago di sangue.
Valer adattò un’altra freccia alla corda dell’arco, e scoccò pure questa nel petto del secondo gigante. Ebbe identica fortuna ed uccise anche costui. Se non li avesse centrati giusto nel cuore, guai a lui: lo avrebbero soffocato come una cornacchia appena nata. Poi entrò nella cittadella, e dalla riva del lago spiò le Fate che si bagnavano, trattenendosi con gli occhi sgranati per la loro bellezza; poi, di soppiatto, veloce come un fulmine, rubò la veste della principessa.
Le altre Fate, accortesi del pericolo, si trasformarono in colombe e spiccarono il volo verso occidente; rimase lì soltanto la principessa, la quale non cessava di implorare Valer che le restituisse le vesti, promettendogli in cambio tesori e beni di grande valore. Ma lui non la ascoltava neppure.
Non gli importava nulla né della sua preghiera né delle sue lacrime, men che meno della sua angoscia, e non rispondeva a nessuna domanda: in questo modo gli avevano insegnato le vecchie sagge del villaggio, esperte di magia, “non bisogna parlare con le Fate né restituire loro le vesti, se le si vuole privare del potere di nuocere”.
Dato che col giovane non c’era nulla da fare, la Fata alla fine si calmò, accettò pian piano la sua compagnia. Sembrava che si fosse abituata a vivere con lui, tanto più che Valer era un ragazzo assai bello e bravo, la aiutava, faceva di tutto per lei, le procurava selvaggina fresca e le dava una mano a cucinare; soltanto, non parlava e non mostrava il luogo in cui aveva nascosto la veste incantata.
Provvide lui a confezionarle altre vesti graziose; ma con quelle, essa non poteva stregare nessuno, perché non avevano nessun potere magico. Così passarono i giorni, le settimane, i mesi.
Dopo nove mesi, la Principessa delle Fate diede alla luce un bimbo dai capelli d’oro, bello come un sogno. Valer era estremamente felice, si era follemente innamorato, e sembrava felice anche lei, quando vedeva cinguettare quella creaturina leggiadra che le assomigliava perfettamente, nel viso e in tutta la figura.
Ciononostante, a volte essa veniva improvvisamente colta da una grande tristezza, da una gran pena; allora iniziava a cantare, fino a che valli e monti non risonavano del suo canto. Quando cantava con più ardore, giungevano le undici colombe, le sue sorelle, a posarsi sulle mura della cittadella; la principessa di un tempo usciva a mostrar loro il bambino, dentro una cuna d’abete. Esse lo osservavano a lungo, come se si trattasse di un’apparizione, poi scuotevano il capo e ripartivano verso il loro segreto paese.
Una sera Valer tornò a casa più stanco del solito, era corso dietro ad alcune capre nere ed era riuscito a colpirne una sola, mentre le altre si erano dileguate all’ombra delle rupi montane. Andò a coricarsi subito, dimenticando di nascondere per bene la veste della fata, che portava addosso notte e dì, cinta alla sua vita, affinché lei non gliela rubasse.
La Principessa delle Fate, avvistando ai fianchi di Valer la veste dal magico potere, trasalì. Le rinacque nell’anima il desiderio di raggiungere il mondo dell’isola marina, presso le sorelle che la attendevano con la madre e il padre, Re del Mare. Lo accarezzò e si diede da fare, fino a quando riuscì a svolgere la veste e ad indossarla.
Adesso era potente. Poteva ucciderlo con un solo cenno; ma il bimbo le sorrideva nel sonno, così dolcemente che essa perdonò Valer per tutto il male che le aveva arrecato. Gli scrisse un biglietto: “Ti lascio il bimbo e la vita. Vado dai miei genitori. Non potrai ritrovarmi, mai più. Con la mia partenza, la cittadella sprofonda nelle tenebre. Costruisci una capanna o trova una grotta, e rifugiatevi là dentro. Se avrò nostalgia del bimbo, verrò a vedervi.”
La cittadella fu inghiottita dalla terra, e fu come se non fosse mai esistita. La Principessa delle Fate si trasformò in una colomba, e si diresse in volo verso il paese dei suoi cari. Il povero Valer, destandosi il giorno seguente sulla riva del lago Lala con il bambino accanto a sé, rimase atterrito. Lesse il biglietto e si percosse la fronte col palmo della mano, rimproverandosi di non aver bruciato la veste di lei, per impedirle di abbandonarlo.
Cercò una grotta come rifugio per il bambino, e gli approntò un lettuccio composto di morbide pelli di animali. Trovò poi una capretta e la portò nella grotta, col suo caprettino, affinché allattasse, oltre al suo piccolo, anche il bambino. I due piccoli poppavano quindi l’uno accanto all’altro, e Valer correva tutto il giorno per procurare il cibo alla mite capretta.
I giorni passavano gli uni dopo gli altri, ma la pena del cacciatore era sempre infinita. Non aveva voglia di dormire né di mangiare, e la sua anima era colma di amarezza. Aveva nostalgia della sua sposa. Ma non era ancora trascorso un mese, che la Principessa delle Fate tornò da lui e gli disse: «Da oggi puoi parlare con me. La nostalgia del mio bimbo mi ha piegata, e mi ha indotto a lasciare i miei genitori. A partire da oggi, resterò sempre accanto a voi.»
Valer cadde in ginocchio e le baciò la mano ringraziandola, felice come non mai. Con le pietre preziose che essa aveva portato, costruirono un bellissimo castello, dove vissero fino alla tarda vecchiaia, nella felicità e nell’amore perfetto.
Le undici colombe venivano una volta all’anno, menando doni al bambino e lettere del padre a lei. Il bambino cantava meravigliose canzoni, perché aveva ereditato dalla mamma, il dono del canto.
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