Mito dei Draghi

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Data di pubblicazione: 12 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

Draghi nella Mitologia

Come sia fatto un Drago ormai lo sanno tutti. Dal Fafner del Siegfried di Richard Wagner fino allo Smog dello Hobbit di John Ronald Tolkien, passando naturalmente per Walt Disney che vi ha immesso alcune tenere varianti, il Drago è una specie di grosso serpente a quattro zampe, con varianti di colore e iridescente tra le scaglie e sotto la pancia, ha una cresta che parte dalla testa e corre ossea o cartilaginea fino alla coda, ha corte zampe possentemente artigliate, una coda appuntita e sovente a punta di freccia.

Solitamente ha piccole ma robuste ali membranose da pipistrello, e di rado in occidente, mentre questa è quasi la regola in Cina, porta delle corna; la lingua è naturalmente biforcuta, e sputa fuoco. Non c’è dubbio che lo si debba considerare un rettile, anzi, il suo corpo è lungo e sinuoso a rammentare, zampe a parte, la sua stretta parentela con il serpente.draghiCosì come si presenta adesso, questo “animale fantastico” è il risultato di lunghe, laboriose e non innocenti manipolazioni. In età romanica, gli occidentali lo raffiguravano come un serpente senza coda (o con due, o con quattro zampe ), fornito di corpo spesso più di uccello che di rettile, ma anche di lunga e micidiale coda: importante, questa, perché da Plinio in poi era risaputo che la forza del “draco” stava anzitutto nella coda, con la quale esso poteva stritolare il suo avversario per eccellenza, l’elefante.

Il Bestiario della Westminster Abbey Library, della seconda metà del XII secolo, ricorda che il Drago, che vive in “India e in Etiopia”, è “il più grande di tutti i serpenti” e lo raffigura con cresta ed ali di uccello, sottolineando che non è tanto il suo veleno quanto la sua lunga coda a renderlo temibile. Le ali di pipistrello gli giungono, in età gotica, dalla Cina, che ha inoltre diffuso i medesimi organi tipici dei Demoni; che Drago e Demonio condividano ali, coda frecciata, artigli non è cosa che possa stupire, visto che dalla Genesi all’Apocalisse, Satana viene identificato come il “drago rosso” e l'”antico serpente”. Quanto poi al suo colore, accanto al realistico verde che richiama i rettili ma anche l’aria, l’acqua e la terra, la tradizione cinese da una parte e celtica dall’altra, conoscono anche Draghi bianchi e rossi, e se ne ricorderà il simbolismo alchemico.

Ora grande serpente che si avvolge in spire, ora rettile imparentato alla lontana con il coccodrillo ma ben più grande di lui, il Drago percorre, insieme con i suoi stretti parenti, vale a dire la salamandra e il basilisco, l’intera età moderna: lo troviamo con frequenza nelle armi araldiche, in cui figura come simbolo degli eretici e dei capi musulmani, ma dove ha anche un ruolo positivo, quali segni di vigilanza o di ardore, oppure quali “armi parlanti”. Del resto, fin dai popoli germanici delle Volkerwanderungen (migrazione dei popoli), il Drago era sovente usato come insegna militare, e come tale troviamo il draco normannicus sugli scudi dei guerrieri di Guglielmo il Conquistatore, nel cosiddetto “arazzo di Bayeux”.

Nella pittura dei secoli XVI-XVII, il drago-demonio cacciato da Michele è, spesso, un ibrido umano-serpentino, non diversamente dal serpente dell’Eden, che ha talora la testa umana. Nel frattempo, la prepalenteologia delle Wunderkammern (stanze dove erano raccolti oggetti ritenuti rari o meravigliosi) rinascimentali e barocche, allineava “ossa” e “denti” di Drago, veri o presunti, accanto ai corni di Unicorno e alle ossa dei “giganti”, un’altra antica e paurosa presenza del mondo ancestrale, posta spesso in correlazione anche iconologica con i Draghi. Drago e gigante sono una specie di fratelli-avversari, entrambi monstra per forma e per dimensioni, e quindi associati a loro volta ad elefanti e balene.

Una sottile sintassi della coesistenza e della rivalità lega queste enormi, ancestrali creature, i cui resti affiorano talora dalla terra e che, si dice, un tempo dominavano il mondo. La meditazione sulla mitologia greco-romana e l’esegesi biblica offrivano, intanto, una nuova inquietante materia di riflessione: giganti e draghi-serpenti sono entrambi presenze ambigue, cariche di una ferocia che le rende nemiche dell’uomo come di Dio o degli Dèi, ma al tempo stesso dotate di una saggezza profonda, custodi di segreti ancestrali e di luoghi inaccessibili, padroni di tesori e di tecnologie noti soltanto a loro.

La nascita della paleontologia come scienza, a partire dalla fine del Settecento, e poi lo studio scientifico dei resti dei grandi sauri del giurassico-cretacico (vissuti cioè tra 200 e 70 milioni di anni fa), portarono all’Ottocento nuove informazioni sui “draghi”. Quelli che conosciamo noi, e che Wagner amava mettere in scena, sono quindi figli della tradizione romanico-gotica e al tempo stesso dell’esotismo e dei musei di scienza naturale.

Avvicinando i Draghi del mito o della leggenda agiografica ai rettili preistorici, l’homo rationalis ha creato una sorta di “corto circuito” culturale, ma ha contemporaneamente sposato, o creduto di sposare, la fantasia con il naturalismo, l’iconografia tradizionale con il naturalismo scientifico. In questo modo, la mitica “ancestralità” dei Draghi, che si situano nelle profondità delle archai o dell’inconscio, è stata ridotta a lontananza preistorica, dunque si è potuto sentenziare che i Draghi, anche se non erano proprio tutti e del tutto leggenda, “non ci sono più”; e, quando c’erano, non erano poi così come i miti e le fiabe li hanno immaginati. D’altronde, in molte mitologie (quella cristiana compresa), gli episodi di uccisione del Drago sono spesso accompagnati, quando non addirittura sostituiti, da elementi che sottolineano la familiarità o addirittura il rapporto d’insegnamento tra belva ed eroe.

Insomma, elementi che adombrano una prova iniziatica. Drago crudele, Drago sapiente, Drago maestro… e magari sapiente perché vecchio, in quanto antico signore delle terre o delle acque che infesta. A questo punto l’Occidente, abituato all’equazione tra Drago e Diavolo, si chiede se per caso il bestione non gli si presenti, invece, come amico, e ricorda i buoni Draghi cinesi, i Draghi imperiali, i generosi mostri che portano il tuono e la pioggia, le terribili eppur paterne creature senza le quali il riso non crescerebbe e i fiumi non si gonfierebbero. Un grosso mistero da risolvere.

Per srotolare lentamente il filo di Arianna dei miti e delle leggende, torniamo un istante al grande Jorge Luis Borges. Il Drago possiede la capacità di assumere molte forme, che sono però imperscrutabili: bisogna partire da qui, da questo drago-caos (o drago-inconscio?), che però è signore degli stati mutevoli dell’essere.

Potenzialità ancestrale, il Drago avvolge nelle sue spire l’intero Cosmo, e non per caso gli antichi geografi raffiguravano talvolta l’oceano come un enorme serpente circolare. Se può assumere molte forme, ciò dipende dal fatto che esso potenzialmente le possiede e le domina. draghiQuesto polimorfismo, e transmorfismo, del Drago si riflette nel suo statuto incerto rispetto ai quattro elementi empedoclei. Gli animali si distinguono tradizionalmente, da Aristotele in poi, in aerei, terrestri e marini; anche se sappiamo bene che esistono animali ibridi come gli anfibi o i pesci volanti. Uno di essi, caso strano, è proprio il cosiddetto draco volans, ovvero l’innocua lucertola del sud-est asiatico, fornita di membrane laterali che le permettono di planare sulle sue piccole prede, gli insetti, dall’alto degli alberi.

Il draco volans somiglia alquanto ai Draghi all’iconografia cinese e, d’altronde, gli evoluzionisti insistono sull’origine sauriana degli uccelli. Ora, il Drago compartecipe dei quattro elementi, può essere creatura terrestre o addirittura sotterranea, acquatica, aerea ed aver perfino familiarità con il fuoco: il suo corpo, nelle sue molte varianti, rimanda a questo suo atteggiamento sintetico riguardo agli elementi costitutivi del mondo.

Gli Himantopodes di Solino e gli uomini dalla coda di drago, detti Dracontopodi, del Liber monstrorum de diversis generibus, aggiungono l’elemento umano a questo polimorfismo empedocleo, aprendo la via ai Demoni e alle Melusine medievali. Presso i Greci la bellissima Echidna (la Melusina ellenica) era una donna affascinante che però aveva la metà inferiore del corpo a forma di serpente; sposa del mostro Tifone, essa mangiava gli uomini vivi e partoriva mostri, e sua dimora erano caverne profonde.

Che il Drago sia animale ctonio è risaputo, lo denotano come tale il suo strisciare, il suo abitare in grotte sotterranee, la sua attitudine a custodire tesori nascosti. Secondo quel geniale indagatore del mondo sotterraneo che fu Athanasius Kircher, innumerevoli Draghi popolano le grotte delle quali l’intero sottosuolo della terra è seminato, e solo alcuni di essi, per caso, affiorano alla luce, e si trovano nella spiacevole circostanza di dover affrontare l’eroe o il santo di turno.

Questo carattere tellurico del Drago ci avvia già ad una delle chiavi del discorso: le ricchezze, i tesori, si trovano sovente sottoterra, ma anche i cammini che conducono all’Aldilà sono, in numerose mitologie, collegati ad un viaggio che l’eroe deve percorrere fra grotte e sentieri sotterranei, e sovente questo viaggio è segnato dalle pégai, le oscure e silenziose acque sotterranee che è necessario attraversare su ponti pericolosi (“ponte” rinvia al sanscrito pantah, “sentiero difficile”, da cui deriva anche il greco pontos, “acqua pericolosa”).

L’oro, le gemme, i chiusi palazzi o i giardini recintati di delizia si trovano sempre al di là di caverne e di ponti, di anfratti sotterranei e di cupe acque da varcare e, per passare oltre, v’è sempre un Drago da vincere o da ammansire. Il suo corpo flessibile e sinuoso sembra alludere all’andamento labirintico del cammino verso il Potere, la Conoscenza o la Liberazione, esso mima il tormentoso sviluppo dei sentieri e dei fiumi sottoterra.

Nell’iconografia medievale, la bocca dell’inferno ha spesso l’aspetto di un enorme mostro dalle fauci spalancate, e la discesa del Cristo agli Inferi, e in seguito la Resurrezione, adempie alle Scritture là dove esse ci forniscono il “segno” di Giona inghiottito dalla balena (un “pesce” che nelle raffigurazioni medievali ha non raramente l’aspetto draghiforme) e rigurgitato dopo tre giorni, vale a dire nato di nuovo ad una vita di livello spirituale superiore. Cammino di sottoterra, ctonio ed acqueo, come accesso ad una verità più alta (il “tesoro” protetto dal Drago), insomma, cammino iniziatico.

Tale è il cammino di Giasone e degli Argonauti, nel cui mito il Drago immortale che custodisce il Vello d’Oro è ammansito e addormentato dagli incantesimi di Medea, un Drago nato dal sangue del mostro Tifone, vinto ed ucciso da Zeus. Tale è il cammino di Eracle verso il giardino delle Esperidi e il suo albero dai frutti d’oro guardato dal Drago Ladone, che secondo alcuni mitografi era figlio di Tifone ed Echidna, e che aveva cento teste e parlava mostrando la conoscenza di molte lingue dell’uomo.

Ma, mentre il serpente della Genesi, che attorcigliato attorno all’Albero della Conoscenza incita l’uomo alla profanazione, è un “guardiano traditore”, condannato per questo a strisciare e ad esser vinto alla Fine dei Tempi, la figura del drago-guardiano invece, dai connotati che stavolta si fanno chiaramente ignei ed uranici (la spada guizzante e fiammeggiante, simbolo della folgore), torna nel tessuto del racconto biblico attraverso il Cherubino posto a guardia del Paradiso Terrestre.

Il Drago tellurico ci si presenta con due volti che sono, a loro volta, due “segni” rivelatori: da una parte è il custode del segreto, del luogo sacro, della ricchezza nascosta, e come tale il divoratore di chi tale segreto vuol profanare e di tale ricchezza si vuole appropriare; dall’altra è il rigurgitatore dell’eroe, quindi il suo iniziatore.

Fra il Drago della terra e quello del sottoterra da una parte, il Drago dell’acqua (della pioggia, dei fiumi, dei laghi o dell’oceano che sia) dall’altra, si pone comunque un Drago per così dire intermedio, che veglia sulle fonti e sulle paludi. La palude è il luogo nel quale acqua e terra si congiungono in modo disordinato (o meglio, preordinato) e caotico, il luogo appunto del “caos”, della materia che attende di venir ordinata.

Essa è quindi in un certo senso come la fonte, ossia il punto nel quale l’acqua scaturisce dalla terra prima ancora di divenire incanalata e sottoposta ad un regime, il luogo dell’informe, delle possibilità prenatali, così come nel mito di Cadmo l’eroe che uccide, su consiglio di Atena, il Drago che sta a guardia della Fonte Castalia e ne semina in terra i denti, dai quali nascono immediatamente uomini armati.

Le culture “pelasgiche”, nel mito greco, si fanno risalire, pertanto, ad un’origine ctonia e al tempo stesso ad una progenitura ferina: si tratta di “figli del drago”. Questo carattere ctonio ed acqueo del drago “progenitore” rinvia alla lotta-iniziazione dell’eroe, come ad un conflitto fra lui e il suo stesso progenitore.

Tuttavia il drago ctonio-acqueo ha un contenuto mitico che allude e rinvia continuamente ad un elemento femminile: è quanto si riscontra nella figura del mostro Tiamat, che nella mitologia babilonese è personificazione della potenza caotica dell’oceano primordiale vinta ed uccisa dal dio Marduk che, tagliandone in due il corpo crea il mondo, separando, come dice la Bibbia a proposito del Dio Creatore, le “acque di sopra” dalle “acque di sotto”, il tehom della Genesi, gli Abissi.

Il gigante dalle cento teste di serpente che vomitano fuoco e che ha nome Tifone, vinto da Zeus, è rappresentato a sua volta nella mitologia greca come figlio di Tartaro (l’Abisso) e di Gea (la Terra). In età alessandrina con Tifone s’identificò Seth, il serpente-coccodrillo vinto da Horus. Anche l’Idra di Lerna, uccisa da Eracle, rammenta un Drago delle paludi; nelle sue teste che ricrescono appena tagliate e che possono esser vinte solo con il fuoco, era la straordinaria vitalità della natura selvaggia che l’uomo antico faticava a dominare.

Anche i dissodamenti e le bonifiche hanno assunto sovente, nell’agiografia e nella mitologia del cristianesimo, l’aspetto della lotta contro un Drago: si pensi alle leggende di San Marcello vescovo di Parigi, di Santa Marta e della Tarasque, di San Romano e della Gargouille di Rouen, di San Silvestro che libera Roma dal Drago dall’alito velenoso, che vive in una grotta profonda per accedere alla quale bisogna scendere centinaia di gradini; si pensi al mito di Melusina “materna e dissodatrice”, come l’ha definita Jacques Le Goff.

Il Drago acqueo e tellurico, sinuoso ed umido come il ventre materno e il liquido amniotico, è terribile e al tempo stesso materno; è il Caos informe dal quale nasce la vita e che pure bisogna domare, ordinare, razionalizzare, cioè “uccidere”, affinché la vita si sviluppi articolatamente. Il nesso profondo che unisce, nelle lingue semitiche come in quelle indoeuropee, i termini indicanti “separazione”, “giustizia” e “creazione”, ne è il segno. L’eroe uccisore del Drago è, da questo punto di vista, un eroe vincitore del Caos; trionfando sulla palude, predisponendo un habitat più adatto all’uomo, si manifesta come un Fondatore.

Creatura della terra, delle acque e dei mari (nell’Alchimia sarà il “serpente mercuriale” che si forma nell’acqua e divora se stesso), il Drago appare legato al regime notturno-femmineo dell’immagine, quindi alla donna e alla lussuria. Dalla Genesi in poi, lungo tutto il Medioevo, l’associazione della donna, del serpente, del simbolo della tentazione e del campo semantico della lussuria sarà costante, ma già questo potrebbe ricondurci, per altri versi, ai connotati ctoni della grande Dea Madre, la pothnia theròn mediterranea raffigurata come Signora dei Serpenti che ella brandisce nelle mani, serpenti che le strisciano sul corpo o che, come nelle effigi della Vergine Maria, le stanno ai piedi, trasformando l’immagine materna della fecondità e della padronanza sulle mutevoli e molteplici forme dell’essere (il serpente con le sue mobili spire) in immagine della vittoria sul male e sul peccato.

draghiL’affinità fra Drago e serpente (come quella, su un altro piano, tra Drago e Grifone, dove prevale l’elemento aereo) è ben presente agli antichi Elleni nella coppia dràkon-ofis, agli Ebrei in quella tannin-nabash e a tutto il mondo occidentale che, da Plinio ai bestiari del medioevo, oscilla in una sorta di incertezza e di confusione semantica fra Drago, anguis, coluber, serpens.

I commentatori di Virgilio avevano provato a distinguere tra anguis che vive nel mare, serpens che striscia sulla terra e draco che vola nell’aria, ma Isidoro di Siviglia, constatando la molteplicità di aspetti simbolici e mitici del Drago, era costretto a denunziare il semplicismo di questa suddivisione e a parlare, ad esempio, di un draco marinus.

Il Drago è quindi, spesso, anche creatura aerea, è provvisto di ali e vola; per certi versi lo si può avvicinare anche agli uccelli. Prima che tutto ciò divenisse familiare a zoologi e paleontologi abituati ad interrogarsi sui rapporti fra rettili e volatili, il mito aveva chiarito alcuni aspetti di questa stessa questione, come in Quetzalcoatl, “Serpente Piumato”, il benefico dio civilizzatore tolteco che avrebbe avuto poi grande importanza nell’evangelizzazione del mondo azteco, in quanto lo si poté avvicinare al Serpente di Bronzo dell’Esodo e farne addirittura una figura del Cristo; oppure nei benefici Draghi cinesi rappresentanti le nubi, il tuono, la pioggia (le “acque di sopra”), anch’essi paterni e civilizzatori, signori del tempo e dell’anno e dunque simbolo imperiale.

Al Drago dell’aria dev’essere accostato, in quanto simbolo cosmico, il Drago gnostico che si morde la coda, già ricordato da Isidoro di Siviglia come il geroglifico egizio (annus quasi annulus) del tempo ricorrente, quindi dell’anno che incessantemente termina e ricomincia: l’Ouroboros, “solvente universale” per gli alchimisti, capace di dissoluzione e di autofecondazione continua. E, che il Drago volante possa soffiare fuoco è una prova di più del suo carattere ambivalente, fecondatore e distruttore: il fuoco, in questo caso, sarà quello uranico del fulmine celeste.

Insomma, lo statuto antropologico del Drago è tanto denso quanto poli-significante: mostro divoratore, ma anche rigeneratore; immagine dell’informe e del Caos primigenio, e pertanto progenitore delle forme di vita; addirittura antenato degli uomini, come nei denti del Drago seminati da Cadmo, e pertanto protettore delle stirpi, come nella tradizione imperiale cinese che trova paralleli in quella celtica e in quella germanica (il draco normannicus).

La tradizione giudaico-cristiana ha senza dubbio immesso, in questa ricca tradizione, un elemento di riduzione e di semplicizzazione che ha fornito sì una nuova chiave di lettura a parecchi antichi miti, ma ne ha al tempo stesso legittimato un’interpretazione univoca e unilaterale. Tutti conosciamo il mushrush o sirrush della grande Porta di Ishtar a Babilonia, e sappiamo del Drago adorato dai Babilonesi, che il profeta Daniele avrebbe fatto morire somministrandogli indigeste polpette di grasso, peli e bitume.

I racconti dei martiri e degli evangelizzatori cristiani rigurgitano, seguendo quel modello, di storie di idoli a forma di Drago atterrati o di immagini idolatriche dalle quali escono serpenti o dragoni che sono, naturalmente, altrettanti Diavoli o segni comunque della presenza demoniaca.

Circondati da popoli che adoravano divinità dalla forma animale e mostruosa, che rinviava sovente all’immagine del Drago, gli Ebrei avrebbero visto in quell’animale fantastico una delle forme più tipiche e impressionanti del demonio. Il che spiega il motivo per il quale, nell’immaginario cristiano, al Drago (dal serpente della Genesi fino al Dragone Rosso dell’Apocalisse che minacciava la Vergine che stava per partorire) si sia attribuito quel valore di simbolo demoniaco ben presto profondamente penetrato nella nostra cultura.

Il Dragone dell’Apocalisse, mostro divoratore, non è anche mostro iniziatore: posto in agguato alla fine dei tempi, esso minaccia il Cristo Venturo, il Signore che verrà ad imporre una “seconda creazione”, ancora una volta dividendo, nel gesto caratteristico dei creatori, dei giudici e degli eroi fondatori, non più le acque di sopra da quelle di sotto, bensì le pecore da capri, i buoni dai rei. Se il Dragone Rosso vincesse, divorando il Nuovo Creatore, l’Universo piomberebbe nel Caos eterno; il Dragone Rosso è un anti-Ouroboros, che divora ma non è capace di rigenerare.

Alla luce di questa esegesi riduttiva, gli stessi popoli delle steppe che entravano nel mondo cristiano ed abbracciavano la nuova fede dovevano, se era loro intenzione non abbandonare le antiche insegne tribali e totemiche che avevano sovente l’aspetto di Draghi, associare il mostro all’arcangelo Michele: in questo modo, il Drago veniva a proporsi come il simbolo dell’antica tradizione pagana, che il cristianesimo aveva debellato. Eppure, questo linguaggio univoco non prevalse mai del tutto. In fondo, anche Israele conosceva i suoi “buoni draghi”: così i Cherubini forza del Signore, così il serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto a salvezza del Popolo Eletto e divenuto simbolo presso i cristiani del Cristo Crocefisso.

Il serpente mosaico della salvezza raggiunge così il simbolo ellenico del Caduceo e si ricollega ai serpenti sapienti e portatori di salute del mondo indoeuropeo (dal simbolo kundalini del Tantra, alla verga adorna di serpenti recata da Hermes psicagogo). Per modellato che possa essere, quantomeno in parte, su quelli di Apollo e Pitone e di Perseo e Medusa, il mito cristiano di San Giorgio e il Drago (che del resto traduce in termini agiografici la lotta di Michele e di Lucifero) diventa paradigmatico per la cavalleria cristiana, nella misura in cui l’esegesi medievale lo interpreta quale “racconto” della psicomachia, della pugna spiritualis: in questo senso, il miles europeo può ben sentirsi, a torto o a ragione, un Giorgio contro il Drago quando parte in battaglia contro i Mori di Spagna, i Saraceni di Terrasanta, i Turchi in Asia Minore o i pagani del Baltico.

Ma in realtà la Chiesa sa bene, che la vera grande battaglia è quella con noi stessi, contro il male e il peccato che si annida dentro di noi. Ciascuno di noi ha il suo Drago da abbattere, per questo il Drachenkampf, la vittoria su se stessi e sulle pulsioni più abbiette dell’IO, diviene un momento centrale del “processo d’individuazione” proposto da Carl Gustav Jung. Tale battaglia, volta alla conquista del tesoro che sta nel fondo di noi stessi, è però, appunto perché tale, una iniziazione. Nella Sigurdhsaga, per questo, il cuore e il sangue del Drago Fafnir, ingeriti dal vincitore Sigurdh, gli daranno il dono di intendere il linguaggio degli uccelli, cioè gli procureranno la sapienza che deriva dalla vittoria su se stessi e sulla parte più oscura e ferina di sé.

Mostro ma anche maestro, il Drago si sacrifica rivelando al suo uccisore, che perciò è anche suo allievo e quindi, ritualmente, suo figlio, il segreto profondo dell’essere. L’iniziazione termina con la morte dell’iniziatore e con il suo rivivere, attraverso l’ingestione del cuore e del sangue, nell’iniziato. E l’eroe sa bene che affrontare il “suo” Drago significa guerreggiare con se stesso, suicidarsi come uomo vecchio per risorgere come uomo nuovo.

Data la lunghezza dell’argomento, l’articolo è stato diviso in più pagine:

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