Sogno di una notte di mezza estate di W. Shakespeare

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Data di pubblicazione: 12 Settembre 2011 ©Giardino delle Fate

✫✫★ ATTO TERZO ★✫✫

~• SCENA PRIMA – Il bosco. Titania adagiata a dormire •~

(Entrano ZEPPA, BIETTA, ROCCHELLA, FLAUTO, CANNELLO e SPARUTO)

ROCCHELLA: Ci siamo tutti?
ZEPPA: Per l’appunto: ed ecco un luogo che par fatto apposta per le nostre prove. Questo spiazzo erboso sarà il palcoscenico, questo folto di biancospini lo spogliatoio, e ora reciteremo proprio come se fossimo davanti al duca.
ROCCHELLA: Piero Zeppa!
ZEPPA: Che dici, Rocchella mio?
ROCCHELLA: In questa commedia di Piramo e Tisbi ci son cose che non potranno mai piacere. Prima di tutto, Piramo sfodera la spada per ammazzarsi; il che non andrà a genio alle signore. Che ne pensi?
CANNELLO: Maria Vergine, che paura matta!
SPARUTO: Mi pare che, tutto considerato, si potrebbe fare a meno dell’ammazzamento.
ROCCHELLA: Neanche per idea: ho io un espediente per rimediare ogni cosa. Scrivimi un prologo, un prologo per spiegare che le nostre spade non vogliono far male a nessuno, e che Piramo non s’ammazza sul serio; poi, per un massimo di precauzione, dite che io, Piramo, non son Piramo, ma Rocchella tessitore: tanto basterà a evitare gli spaventi.
ZEPPA: Resta inteso: avremo il prologo, e sarà in versi d’otto e di sei.
ROCCHELLA: No, meglio di più sillabe, fallo in versi d’otto e d’otto.
CANNELLO: E le signore non avranno paura del leone?
SPARUTO: Vi garantisco che ne ho paura anch’io.
ROCCHELLA: Compari, pensateci bene: portare un leone (Dio ne guardi!) in mezzo alle signore è cosa tremenda. Non esiste davvero un altro uccello rapace spaventoso come un leone vivo; e bisogna aver prudenza.
CANNELLO: Allora un altro prologo dovrà spiegare che il nostro non è un leone vero.
ROCCHELLA: Anzi, bisognerà annunziare il nome dell’attore, e lasciar vedere un po’ della sua faccia tra la criniera del leone; e lui stesso dovrà parlare attraverso il pelo, dicendo così (o allo stesso “difetto”): “Signore”, oppure, “Signore belle, vorrei che voi”, o, “vi pregherei”, o, “vi supplicherei di non temere, di non tremare: la mia vita risponde della vostra. Se credete che io venga qui a fare il leone per davvero, ahimè della mia vita! No, non sono una bestia simile: sono un uomo come tutti gli altri”; e a questo punto lui dica addirittura ii suo nome, e spieghi francamente d’essere Bietta Stipettaio.
ZEPPA: Bene, si farà così. Ma ci sono altri due impicci: il primo è portare il lume di luna in una stanza; perché, sapete, Piramo e Tisbi si dan ritrovo al lume di luna.
CANNELLO: Ci sarà la luna la sera della nostra recita?
ROCCHELLA: Un calendario, un calendario! guarda nell’almanacco: cerca la luna, cerca la luna.
ZEPPA: Sì, quella sera ci sarà.
ROCCHELLA: E allora potrete lasciare aperta una imposta di finestra nella sala dove reciteremo; e il lume di luna entrerà dalla finestra.
ZEPPA: Già; oppure qualcuno potrà venir fuori con un fascio di spine e una lanterna, e dire che arriva a “sfigurare”, o a rappresentare, la persona del Lume-di-Luna. Ma poi c’è un altro impiccio: avremo bisogno d’un muro nella sala, perché Piramo e Tisbi (come dice la storia) si parlavano attraverso il cretto d’un muro.
CANNELLO: Sarà impossibile tirar dentro un muro. Che ne dici tu, Rocchella?
ROCCHELLA: Un uomo qualunque potrà rappresentare il Muro: basterà impiastrarlo con un po’ di gesso d’intonaco, di marna, tanto per far capire ch’è un muro; lui, poi, terrà i diti così; e attraverso quello spacco Piramo e Tisbi bisbiglieranno fra loro.
ZEPPA: Se si può fare a questo modo, è sistemato tutto. Su, figlioli delle vostre mamme, mettetevi a sedere, e provate le vostre parti. Piramo, a te: quando avrai finito il tuo discorso, entra in quel boschetto; e così un per uno, secondo l’imbeccata.

(Entra il FOLLETTO, restando indietro)

FOLLETTO: Che zoticoni abbiamo a schiamazzare presso la cuna della mia regina? Si recita? Vo’ far da spettatore; da attor, fors’anche, se ne veggo il destro.
ZEPPA: Piramo, parla. Tisbi, fatti innanzi.
ROCCHELLA: “Tisbi, i fiori ‘odiosi’ han grato olezzo”.
ZEPPA: Odorosi, odorosi.
ROCCHELLA: ‘d’odori’ han grato olezzo: così, caruccia mia, cara, il tuo fiato. Ma zitta, odo una voce: aspetta un poco e tornar mi vedrai tosto al tuo lato. (Esce)
FOLLETTO (a parte): Non recitò qui mai sì strano Piramo! (Esce)
FLAUTO: Tocca a me di parlare adesso?
ZEPPA: Di sicuro, perdinci, tocca a te; perché lui capisci, è andato a “vedere” d’un rumore udito e deve tornare.
FLAUTO: O Piramo, qual giglio nel tuo candor radioso, nel tuo color qual rosa di pruno trionfale. La tua beltà ‘inebrèa’, giovincello animoso! fido al par di cavallo cui lena ognoravale; c’incontreremo al tumul ‘babbione’.
ZEPPA: “Al tumul babilonio”, compare! Ma questo non lo devi dire ora; è la tua risposta a Piramo. Tu dici la tua parte tutta di seguito, coi richiami e ogni cosa. Entra, Piramo: hai lasciato passare il tuo richiamo; è “ognora vale”.
FLAUTO: Oh… Fido al par di cavallo cui lena ognora vale.

(Rientrano il FOLLETTO e ROCCHELLA, trasfigurato da una testa asinina)

ROCCHELLA: “Se tale fossi, Tisbi, tuo sarei”…
ZEPPA: Che mostruosità! Che stranezza! Siamo stregati! Su, compari! scappiamo, compari! aiuto!

(Escono ZEPPA, BIETTA, FLAUTO, CANNELLO E SPARUTO)

FOLLETTO: Vo’ inseguirvi: con mille giravolte incalzarvi in padule, e macchia, e fratta; fiamma esser vo’ talor, destriero a volte, o veltro, o verro, od orsa mentecatta nitrir, grugnir, ruggir, latrar, dar foco, destrier, verro, orsa, can, fiamma, ogni poco. (Esce)
ROCCHELLA: Perché scappano? Dev’essere qualche birberia per farmi paura.

(Rientra CANNELLO)

CANNELLO: O Rocchella, come sei mutato! che vedo addosso a te? (Esce)
ROCCHELLA: Che vedi? vedi la tua testa di ciuco malcreato, eh?

(Rientra ZEPPA)

ZEPPA: Benedetto te, Rocchella, benedetto te! come sei mutato! (Esce)
ROCCHELLA: Capisco questa birberia. Vogliono farmi fare una figura ciuca, impaurirmi potendo: ma io non mi moverò di qui cascasse il mondo. Mi vo’ mettere a passeggiare in su e in giù cantando, per far sentire che non ho paura, io. (Canta) “Il merlo negro nell’ammanto dal becco brun-ranciato, il tordo, esperto d’ogni canto, il reattin flautato”.
TITANIA (destandosi): Quale angelo mi desta in mezzo ai fiori?
ROCCHELLA (canta): “Lodola, passer filunguello, il grigio cucco uggioso, al cui insistente ritornello non replica lo sposo”; perché, davvero, chi vorrebbe far prova di ingegno con un uccello così stupido? chi vorrebbe sbugiardare un uccello anche se quello strillasse “cucù” a perdifiato?
TITANIA: O benigno mortale, canta ancora! L’orecchio mio si bea nelle tue note, la tua forma conquide gli occhi miei, e il poter de’ tuoi vezzi mi costringe irresistibilmente, al primo sguardo, a confessare, anzi a giurar, che t’amo.
ROCCHELLA: Mi pare, padrona mia, che non ci sia motivo per un fatto simile: ad ogni modo, per dire il vero, la ragione e l’amore oggigiorno vanno di rado assieme. Ed è un peccato che qualche vicino dabbene non dia a cotesti due il modo di fare amicizia. Già, so celiare, se mi metto.
TITANIA: Saggio tu sei del pari che avvenente.
ROCCHELLA: No, non è vero nemmeno questo: ma se mi bastasse il giudizio per uscire da questo bosco, saprei benissimo badare al fatto mio.
TITANIA: Da questa selva non bramar d’uscire: qui resterai qual che sia ‘l tuo desire. Non comune è il mio grado tra le fate; nella mia pompa è ancella ognor l’estate; ed io t’amo; perciò vieni con me. Chiamerò gli elfi per badare a te: perle ti recheranno essi dal mare, e giacendo sui fior, li udrai cantare; Ed io te sgombrerò di scoria greve, per renderti qual spirto aereo lieve. Fior-di-Pisello! Ragnatelo! Bruscolo! Gran-di-Senape!

(Entrano FIOR-DI-PISELLO, RAGNATELO, BRUSCOLO, e GRAN-DI-SENAPE)

FIOR-DI-PISELLO: Eccomi!
RAGNATELO: Anch’io.
BRUSCOLO: Anch’io.
GRAN-DI-SENAPE: Anch’io.
TUTTI: Che c’è?
TITANIA: Con questo cavalier garbati siate: dinanzi a lui in istrada saltellate, nella sua vista gai caprioleggiate; d’albicocche e lamponi lui cibate, di fichi, more, ed uve imporporate; il miele dei pecchioni saccheggiate, di lor cerose zampe torce fate, e di lucciole agli occhi le incendiate, quando ai suo letto l’amor mio scortate; poi tolte alle farfalle ali iridate, il lume della luna sventolate con esse dalle sue ciglia assonnate. Elfi, a lui in obbedienza v’inchinate.
FIOR-DI-PISELLO: Salve, o mortale!
RAGNATELO: Salve!
BRUSCOLO: Salve!
GRAN-DI-SENAPE: Salve!
ROCCHELLA: Prego caldamente le Vostre Signorie di farmi grazia. Supplico Vostra Signoria di dirmi il suo nome.
RAGNATELO: Ragnatelo.
ROCCHELLA: Bramo di far meglio conoscenza con voi, egregio compar Ragnatelo: se mi taglio un dito, mi farò lecito di ricorrere voi. Il vostro nome, signor dabbene?
FIOR-DI-PISELLO: Fior-di-Pisello.
ROCCHELLA: Vi prego d’ossequiare per me la signora Buccia, vostra madre, e il signor Baccello, vostro padre. Egregio compare Fior-di- Pisello, bramo di far meglio conoscenza con voi pure. Il vostro nome, ve ne supplico, signore.
GRAN-DI-SENAPE: Gran-di-Senape.
ROCCHELLA: Egregio compare Gran-di-Senape, conosco bene la pazienza vostra: quel vile gigante d’un “Manzo-di-bove” ha divorato molti valentuomini della vostra famiglia: vi garantisco che i vostri parenti mi hanno fatto venire i lucciconi già diverse volte. Bramo di far meglio conoscenza con voi, egregio compare Gran di-Senape.
TITANIA: Al mio ricetto scortate il mio amore. Della luna la vista par velata di pianto; e se tant’è, piange ogni fiore, mesto per qualche purità oltraggiata. Zitti, al mio amor la lingua sia legata.

~• SCENA SECONDA – Altra parte del bosco •~

(Entra OBERONE)

OBERONE: Vorrei sapere se Titania è desta; e se mai, chi le apparve al suo risveglio, ed ora delirar la fa d’amore. (Entra il FOLLETTO) Ecco il mio messo. Di’, pazzo folletto, che avvien stanotte nel magato bosco?
FOLLETTO: La regina d’un mostro è innamorata. Presso il ricetto suo sacro e nascoso, nell’ora del profondo suo riposo, di zotici, di goffi artieri un branco, gente sol buona a faticare al banco per buscar di che vivere in Atene, a far le prove d’un dramma, ecco, viene che di rappresentare ha preso accordo per le nozze del duca. Il più balordo di quello stupidissimo drappello, il Piramo del dramma, sul più bello abbandona la scena, e in un boschetto si caccia; ov’io, colto il destro, gli metto la zucca d’un somaro sulla testa. Alla sua Tisbe replicare in questa deve, e vien fuori il balordo attore. Quali smerghi il furtivo uccellatore spiando, o bige gracchie, in largo stuolo, pel rombo degli spari sorte a volo, con rauchi stridi, in pazza scorreria si sbandano pel cielo; così via, alla vista di lui, ogni altro scampa; chi in uno sterpo rotolando inciampa; chi strilla “all’assassino!”, e un grido acuto lancia vèr la città, chiamando aiuto. Gli spirti avendo dal terror fiaccati, zimbello ei son d’oggetti inanimati: i rovi, i pruni strappan lor le vesti; a quei il cappello, la manica a questi; qualunque oggetto in cui poter far presa di dosso a chi non sa più far difesa. Io li sospinsi in questo terror pazzo, lasciando il dolce Piramo allo spiazzo e andò a finir che, quando gli occhi aprì, Titania d’un somaro s’invaghì.
OBERONE: Quest’è ben più di quanto m’attendevo. Ma il mio filtro, com’io ti prescrivevo, negli occhi di quel giovine hai stillato?
FOLLETTO: Pur questo è fatto: della dama allato, quando il colsi, dormiva il cavaliere; nel destarsi egli l’ebbe da vedere.

(Entrano ERMIA e DEMETRIO)

OBERONE: Sta’ queto; vedi, il giovine s’è desto.
FOLLETTO: Quest’è la dama: il giovin non è questo.
DEMETRIO: Perché sdegnar chi tanto amor vi serba? Nemico acerbo voce oda sì acerba.
ERMIA: Sì, m’adiro con te; ma peggio assai dovrei trattarti, ché tu, forse, m’hai dato cagione a maledir. Se ucciso hai Lisandro nel sonno, e il piede intriso hai già nel sangue, sguazzavi più a fondo, e col ferro me pur togli dal mondo. Fedele al giorno il sol non s’è mostrato come a me il mio Lisandro. Allontanato si sarebbe egli mai da me dormente? A creder m’indurrei più facilmente che la terra tenace forar da una ad altra parte s’avesse, e la luna pel suo centro agli antipodi sguisciasse, e quivi suo fratello spodestasse in sul meriggio. Esser non può che ucciso tu non abbi il mio amor: cotesto viso è d’assassino; così tetro e smorto.
DEMETRIO: D’assassinato è l’effigie che porto; né altra a me convien, poi che il mio cuore trafitto fu dal tuo crudel rigore. Ma tu, assassina, serena e splendente sei, qual Venere in sua sfera lucente.
ERMIA: Che c’entra con Lisandro? dov’è mai? Oh buon Demetrio, di’, me lo darai?
DEMETRIO: Il suo carcame vorrei dare ai cani.
ERMIA: Via, via, cane randagio! tu mi strani alla donnesca pazienza. L’hai ucciso dunque? Più non conterai d’ora innanzi fra gli uomini! Il vero, ah, dimmi, dimmi una volta, in carità! Avresti osato di guardarlo in viso quand’era sveglio? l’hai tu dunque ucciso nel sonno? Che prodezza! Di’, un serpente, un angue non potea far similmente? L’uccise un angue; né alcun angue v’è più velenoso (o aspide!) di te.
DEMETRIO: Furor tu spendi in uno sdegno vano: è pura d’uman sangue la mia mano; e a quel che so, Lisandro non è morto.
ERMIA: Di’ che sta bene, allor: dammi conforto.
DEMETRIO: Se mai, che premio mi daresti tu?
ERMIA: Un privilegio: non vedermi più. Vado; la tua presenza non sopporto: stammi lontano, ch’ei sia vivo o morto. (Esce)
DEMETRIO: Vano è seguirla mentr’è d’ira in foco: meglio ch’io sosti qui per alcun poco. Aggrava del dolore ogni tormento l’insolenza del sonno in fallimento; ma qualche acconto questi potrà dare, se la profferta sua qui vo’ aspettare. (Si corica e s’addormenta)
OBERONE: Che fai? d’un fido amante le pupille tu m’hai bagnato con magiche stille: e pel tuo sbaglio l’amante sincero, non già l’infido, muterà pensiero.
FOLLETTO: E’ destin che, se un uomo serba fede un milione ve n’è che ognor la lede, passando d’uno ad altro giuramento.
OBERONE: Trascorri il bosco più ratto del vento, Elena a rintracciar, dama d’Atene. D’amor malata ell’è, smorta diviene pei sospiri che smungon le sue vene. Con arte qui la riconduci, e intanto rinnoverò sul giovine l’incanto.
FOLLETTO: Vo, vo; guardate, vo: mai sì veloce tartara freccia scattò dalla noce. (Esce)
OBERONE (Spremendo il fiore sui cigli di Demetrio): Tu, cui tinse di rossore di Cupido il dardo, o fiore, opra sì col tuo liquore che la dama, al traditore, paia cinta di folgore come l’astro dell’amore. Se, ridesto dal sopore, ei la vegga, sia ‘l favore di lei balsamo al suo cuore.

(Rientra il FOLLETTO)

FOLLETTO: Capitan di nostre schiere, v’è qui Elena, ed il sere che ho magato per errore e che il merto vuol d’amore. Ne vedremo i lazzi insani? Oh, che stolti son gli umani!
OBERONE: Questo chiasso (fatti in là) or Demetrio desterà.
FOLLETTO: Due saranno a vagheggiare; oh, che spasso singolare! Più mi garban certi tratti se dovuti a strani fatti.

(Rientrano ELENA e LISANDRO)

LISANDRO: Perché uno scherno l’amor mio tu credi? Scherno e irrision non fanno lagrimare: se ti parlo d’amor piango, lo vedi; e in detti così nati il vero appare. Come l’amor può sembrarti disdegno, se del vero, per prova, porta il segno?
ELENA: La tua malizia mostri sempre più. Ver contro vero, oh pia guerra e profana! Votato ad Ermia, la ripudi tu? Pesar giuro con giuro è cosa vana. I giuri tuoi per lei, per me (in bilance) peseran pari e lievi come ciance.
LISANDRO: Fui stolto ad Ermia rivolgendo i preghi.
ELENA: Sei stolto, a parer mio, se la rinneghi.
LISANDRO: Demetrio l’ama, e non ama più te.
DEMETRIO (destandosi): Elena, o tu perfetta ninfa, dia! Che dir degli occhi tuoi, dolcezza mia? È torbido il cristallo al paragone. Oh, di vermiglie labbra tentazione, oh, ciliege da baci! Raggelato candore in cima al Tauro, ventilato dai soffi d’Euro, le più pure nevi son pari a corvo se la man tu levi. Ch’io baci, deh, questo candor sovrano, ch’è sigillo di gaudio sovrumano!
ELENA: Che tormento crudele! che rovello! Tutti volete far di me zimbello. Se conosceste garbo e cortesia, non mi fareste tale villania. Non vi basta ch’io sappia che mi odiate, ma occorre che a beffarmi v’accordiate? Se umani foste, non sol nell’aspetto, di frale donna avreste più rispetto. Lodare i vezzi miei, giurarmi amore, mentre per me nutrite l’odio in cuore! Rivali siete voi quand’Ermia amate; rivali siete or ch’Elena beffate. Virile impresa, vanto singolare, col vostro scherno indurre a lagrimare una meschina! Niun che sia cortese recherebbe a fanciulla tali offese, facendo strazio della sua mitezza, e ciò solo di spasso per vaghezza.
LISANDRO: O Demetrio, non essere indiscreto; ami Ermia; e sai che ciò non m’è segreto: pur volentieri, di cuore, ti cedo il mio diritto all’amor suo; né chiedo se non che tu voglia lasciarmi in sorte Elena che amerò fino alla morte.
ELENA: Da beffatori non mai venne il fiato più vanamente di così sprecato.
DEMETRIO: Lisandro, Ermia non curo: tienla tu. Se pur l’amai, quell’amor non è più. Il mio cuore da lei venne ospitato, ora a casa con Elena è tornato per sempre.
LISANDRO: Elena, bada: non è vero.
DEMETRIO: Non calunniare un amore sincero che ignori: ti potrebbe costar cara. Guarda l’amore tuo; vien la tua cara.

(Rientra ERMIA)

ERMIA: La tenebrosa notte il guardo oscura, ma acuto fa l’orecchio oltre misura, onde, per quanto ne soffra la vista, doppio vantaggio l’udito ne acquista. Non gli occhi miei, Lisandro, t’han trovato; gli orecchi, lor mercé, qui m’han guidato. Perché, crudel, mi volesti lasciare?
LISANDRO: Quando incalza l’amor, perché sostare?
ERMIA: Lungi da me che amor trarti poteva?
LISANDRO: L’amor che posa a me non concedeva: Elena bella, che le notti infiamma meglio d’occhiute luci e nèi di fiamma. Che vuoi da me? Non puoi capire questo: che son fuggito perché ti detesto?
ERMIA: Non pensi quel che dici: non è vero.
ELENA: Ecco, ha parte anche lei nella congiura! si sono messi in tre, ben me n’avvedo, per tramar questa beffa a mio dispetto. insolente fanciulla! amica ingrata! hai cospirato insieme con costoro per tribolarmi con sì turpe scherno? le nostre confidenze, le promesse d’amor fraterno, l’ore insieme scorse quando, al pensiero della dipartita, ci crucciavam col piè veloce tempo, oh, tutto, tutto hai tu posto in oblìo? Persin l’affetto degli anni di scuola, dell’infanzia innocente? Ermia, tu ed io, come due dive industri, abbiamo insieme trapunto un fiore da un modello solo, sedute sul medesimo cuscino, cantando in egual tono una canzone, come se mani e fianchi e voci e idee avessimo confuse. Insiem crescemmo come ciliegia duplice, divisa solo in sembianza, gemina unità; come due tonde bacche su uno stelo: con due corpi apparenti ed un sol cuore: pari a due emblemi araldici, accoppiati per nozze sotto un unico cimiero. Perché scindere vuoi l’antico affetto per derider con uomini un’amica? A bontà ciò disdice, e al tuo candore: tutto il mio sesso se ne può crucciare; sebben l’ingiuria ferisca me sola.
ERMIA: Sono stupita dalle tue parole. Io non t’irrido: par che tu m’irrida.
ELENA: Non hai tu stimolato il tuo Lisandro a vagheggiarmi per celia, lodare i miei sguardi e ‘l mio viso? non hai indotto l’altro tuo innamorato (quel Demetrio che pur ora col piè mi respingeva!) a chiamare me diva, e ninfa, rara, preziosa, celestiale? Perché mai egli dice così, se mi detesta? E Lisandro perché nega l’affetto per te (così fervente nel suo cuore), perché m’offre (oh, sul serio!) devozione, se non per tuo voler, col tuo consenso? Che fa se in grazia al par di te non sono, non come te vagheggiata e felice, ma afflitta da un amor senza speranza? Compiangermi dovresti e non spregiarmi.
ERMIA: Io non intendo ciò che tu vuoi dire.
ELENA: Ma sì! continua, datti un’aria afflitta; fammi boccacce se volto le spalle, e ammiccate fra voi; fatela lunga; sì vaga beffa passerà alla storia. Se pietà, gentilezza aveste o garbo, non fareste così di me ludibrio. Ma addio: ciò forse, in parte, è colpa mia; cui presto ammendi lontananza, o morte.
LISANDRO: Resta, o diletta; ascolta le mie scuse, amor mio, vita mia, Elena bella!
ELENA: Stupenda questa!
ERMIA: Caro, non beffarla.
DEMETRIO: S’ella non sa pregar, poss’io costringere.
LISANDRO: Più costringer non sai ch’ella pregare: le tue minacce sono inette al pari de’ suoi deboli preghi. Elena, t’amo; per la mia vita lo giuro; e per essa, che a te vorrei sacrificare, giuro di smentire chi neghi l’amor mio.
DEMETRIO: Dico che t’amo oltre ogni suo potere.
LISANDRO: Or dunque, vieni meco a darne prova.
DEMETRIO: Presto, su!
ERMIA: Che vuol dir questo, Lisandro?
LISANDRO: Indietro, Etiope!
ERMIA: No, no: costui vuole…
DEMETRIO: Su, dibattiti! smania per far mostra di volermi inseguir; ma non venire: un uomo mansueto sei tu, va’!
LISANDRO: Scansati, gatta, lappa! va’, insetto, lasciami, o via ti scaglio come serpe!
ERMIA: Perché sei divenuto sì scortese? Che mutamento è questo, dolce amore?
LISANDRO: L’amore tuo? via tartara bronzina! Via, via, medicamento nauseoso! Beveraggio aborrito, via di qua!
ERMIA: Tu scherzi!
ELENA: Certo; come fai tu pure.
LISANDRO: Demetrio, manterrò la mia parola.
DEMETRIO: Vorrei ti vincolassi a me; ben vedo che a trattenerti basta un laccio tenue: della parola tua più non mi fido.
LISANDRO: Vuoi tu ch’io la maltratti, la percuota, la stenda morta? L’odio; ma non voglio farle male a tal segno.
ERMIA: Esser vi può mal più grande per me dell’odio tuo? M’odi? e per qual motivo? Ahimè, che dici? Ermia non sono? E tu non sei Lisandro? Ancor son bella com’ero pur dianzi. Stanotte tu mi amavi; eppur stanotte tu m’hai lasciata sola: ebbene, dimmi debbo credere dunque (il ciel non voglia!) che tu proprio intendessi abbandonarmi?
LISANDRO: Sì, per la vita mia; e non volevo vederti più. Ogni speranza, o inchiesta, o dubbio sbandir puoi: nulla è più vero, stanne sicura; non è già una celia ch’io ti detesto, ed amo Elena ormai.
ERMIA: Ah, ingannatrice! bruco rodi-fiore! ladra d’affetto! sei venuta al buio, dunque, a rapirmi il cuor dell’amor mio?
ELENA: Bella davvero! non hai tu pudore, né virgineo ritegno, od ombra alcuna di decenza? Vuoi tu, dunque, strappare risposte irose alla mia lingua mite? Ohibò, simulatrice, va’, bamboccia!
ERMIA: Bamboccia? e perché mai? oh, sì, capisco il gioco di costei. Ella a Lisandro ha fatto confrontar la sua statura colla mia; s’è vantata d’esser alta; e con quel personale così grande, con quell’altezza, certo, l’ha conquiso. Ti sei innalzata nella stima sua, perché son così bassa e nanerella? Quanto son bassa, pertica dipinta? Quanto son bassa, di’? Non però tanto da non giunger coll’unghie agli occhi tuoi.
ELENA: Oh, signori, per quanto mi burliate, impedite a costei di farmi male: non fui mai trista; non so bisticciare; son fanciulla davvero in codardia: badate che costei non mi percuota. Forse, vedendo ch’è un po’ più bassina di me, credete ch’io le tenga testa.
ERMIA: Più bassa! udite, lo ripete ancora.
ELENA: Ermia cara, con me non t’inasprire. Io t’ho sempre voluto tanto bene, ho sempre custodito i tuoi segreti, né mai ti feci torto; se non quando, sobillata da amor, dissi a Demetrio della tua fuga dentro questa selva. Corse egli in traccia di te; per amore dietro gli tenni. Irato mi respinse, minacciando percosse e villanie, perfin dicendo di volermi uccidere. Ed or, se in pace tu mi lasci andare, ricondurrò in Atene il mio dolore, né più ti seguirò. Lasciami andare. Vedi a qual punto son semplice, sciocca.
ERMIA: Vattene, dunque: chi mai ti trattiene?
ELENA: Lo stolto cuore mio, che resta qui. qui.
ERMIA: Qui con Lisandro?
ELENA: No, no, con Demetrio.
LISANDRO: Non può farti alcun male, Elena; credi.
DEMETRIO: Neppur se voi, signore l’aiutate.
ELENA: Oh, nell’ira divien maligna e scaltra! Era una volpe quando andava a scuola; e, sebbene piccina, è fiera assai.
ERMIA: “Piccina?” e dài con quel “bassa” e “piccina”! Perché le permettete di schernirmi? Le vo’ saltare agli occhi.
LISANDRO: Va’ via, nana; imbozzacchita per la centinodia; acino, ghianda.
DEMETRIO: Troppo premuroso sei per tale che spregia i tuoi servigi. Lasciala fare; non parlare d’Elena; non prender le sue parti: se t’attenti a mostrare per lei ombra d’amore, la pagherai.
LISANDRO: Non più costei mi tiene; seguimi dunque, se ardisci, a provare chi fra noi due può aver diritto ad Elena.
DEMETRIO: Seguirti? no, ti verrò stretto allato.

(Escono LISANDRO E DEMETRIO)

ERMIA: Per voi, padrona mia, tanto subbuglio: non vi scansate.
ELENA: Di voi non mi fido, né vo’ più vostra mala compagnia. Voi mani pronte avete per rissare, ed io lunghe ho le gambe per scappare. (Esce)
ERMIA: Sono stupita, e non so più che dire. (Esce)
OBERONE: Questo avvien per tua colpa; o prendi abbaglio, oppure ordisci qualche gherminella.
FOLLETTO: Re dell’ombre, vi giuro, presi abbaglio. Non mi diceste voi che conosciuto avrei il giovine a’ panni ateniesi? Ed era tale l’innocenza mia, che a un uom d’Atene feci la magia; ma che ne sia seguito tanto chiasso m’allegro, ché m’è parso un grande spasso.
OBERONE: Cercan gli amanti luogo ove far lotte: corri, Bertino, ad oscurar la notte; sullo stellato le cortine aduna di nebbia, al pari d’Acheronte bruna e i rivali furenti disvia tu, sì che non possan ritrovarsi più. Talora imita Lisandro alla voce, indi a Demetrio scaglia ingiuria atroce; talora in guisa di Demetrio irridi; e ciò lontano l’un dall’altro guidi, sinché, con piè di piombo e glabre ali, su lor, simile a morte, il sonno cali: tu spremi, allor, di Lisandro sugli occhi quest’erba, il cui licor, sol che li tocchi farà che il guardo lor, disincantato, si rivolga a veder nel modo usato. Nel risveglio d’entrambi, ogni irrisione parrà sogno ed inane visione; e torneranno ad Atene gli amanti, per esser fino a morte ognor costanti. Mentre quest’incombenza a te commetto, mi riserbo ottener che il giovinetto indiano la regina a me conceda; allor permetterò che non più leda l’occhio suo, per magia, cotanto orrore, e tornerà la pace in ogni cuore.
FOLLETTO: Occorre darci fretta, o re d’incanti: i draghi della notte, ecco, hanno infranti i nembi, e splende il messo dei mattini; dinanzi a cui gli spettri peregrini ai cimiteri affollansi; e i dannati spirti, in crocicchi e flutti sotterrati, ai verminosi letti fan ritorno: perché non scruti le lor colpe il giorno, sfuggon la luce in volontario esilio, figli all’oscurità dal nero ciglio.
OBERONE: Ben altri spirti siamo noi: talora vo a diporto col vago dell’Aurora, e al par di guardacaccia frequentare posso le selve insin, che il limitare ignito d’oriente s’apra, e lume beato indori salse e verdi spume.
Nondimeno suvvia, diamoci attorno possiam compiere l’opra innanzi giorno. (Esce)
FOLLETTO: Or di qua, or di là, li addurrò di qua, di là. In campagna ed in città son temuto. Spirto, va’, falli errar di qua, di là. Eccone uno.

(Rientra LISANDRO)

LISANDRO: Fiero Demetrio, ove sei? parla, su.
FOLLETTO: Son qui, ribaldo, a spada nuda! E tu?
LISANDRO: Eccomi a te.
FOLLETTO: Sopra miglior terreno seguimi.

(Esce LISANDRO, come seguendo la voce – rientra DEMETRIO)

DEMETRIO: Olà, Lisandro! parla almeno. Fuggi, codardo? T’inselvi? Rispondi! Dov’è che la tua testa mi nascondi?
FOLLETTO: Tu sbraiti, tu, codardo, verso gli astri, ai cespugli minacci tu disastri, e poi mi scansi? Vieni via, poltrone; fanciullo, vien via; con un frustone te le darò: colui si disonora che per te trae la spada.
DEMETRIO: Sei lì ora?
FOLLETTO: Andiamo altrove a misurarci: guida la mia voce ti sia.

(Escono – rientra LISANDRO)

LISANDRO: Fugge, e mi sfida; quando ove chiama arrivo, se n’è ito.Piede ha costui ben più del mio spedito:
per quanto ad inseguir facessi presto, a fuggire ei fu sempre assai più lesto. Ravvolto in buio e sassoso cammino, vo’ sostar. (Si corica) Vieni, gentile mattino! Sol che appaia ‘l tuo primo argenteo raggio, a Demetrio scontar farò l’oltraggio.

(S’addormenta – rientrano il FOLLETTO e DEMETRIO)

FOLLETTO: Oh, oh, oh! Come mai quel vil non viene?
DEMETRIO: Fermati, se n’hai cuore; troppo bene so che tu fuggi innanzi a me, che sguisci da un posto all’altro, che tu non ardisci mai di sostar, né di guardarmi in faccia. Dove sei?
FOLLETTO: Vieni qua; sulla mia traccia.
DEMETRIO: Mi beffi, dunque. Tu la pagherai se alla luce del giorno potrò mai vederti in viso. Ma va’. La stanchezza tanto mi spossa che la mia lunghezza m’è forza misurar su freddo letto. Di rintracciarti all’alba ti prometto.

(Si corica e s’addormenta – rientra ELENA)

ELENA: Notte d’angoscia, tetra notte e lunga, t’abbrevia! luce, arridi in oriente, sì ch’io col nuovo giorno in città giunga, fuggendo chi detesta me dolente: sonno, che addormi la malinconia, toglimi un po’ dalla mia compagnia. (Si corica e s’addormenta)
FOLLETTO: Son tre soli? Più saranno. Due per sorte quattro fanno. Ecco l’altra in afflizione. Turba Amore (quel briccone) delle donne la ragione.

(Rientra ERMIA)

ERMIA: Mai tanto stanca, mai tanto infelice, di guazza intrisa, dai pruni ferita, non mi trascino più, non più mi lice; indarno la mia brama il piede incita. Qui vo’ fino all’aurora riposarmi. Lisandro aiuti il ciel, s’ei venga all’armi! (Si corica e s’addormenta)
FOLLETTO: Sul tenace suolo, in pace dormi: e il fiore, o amadore, l’occhio tuo sgombri d’errore.
(Spremendo l’erba sui cigli di Lisandro): Nel destarti possa darti gran piacere rivedere gli occhi del tuo primo amore: sì che il detto popolare – a ciascun de’ il suo toccare – per te s’abbia ad avverare. Gilia è per Gianni: bastan gl’inganni; l’uom de’ aver la sua cavalla, e finir coi danni.

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